Matilde Montanari. Hoc est enim corpus meum

 In La camera ibrida, Tematiche


Matilde Montanari Hoc est enim Corpus Meum

E’ questo l’evento che toglie il fiato […] l’anacronia, la differenza all’opera nell’opera
Jacques Derrida

Il Nudo è diventato impossibile, come dice Belting a proposito di Duchamp: «l’arte è una robe de la marié, velo di sposa che non si può spogliare. O perché non c’è che il velo, cioè l’arte soltanto, o perché c’è qualcosa al di là dell’arte, di cui essa non è che indumento». Questa pelle porosa, bucata, orifiziale non chiude il corpo, solo la metafisica l’instaura come linea di demarcazione corporea ed è negata a profitto di una seconda pelle non porosa, senza essudazione o escrezione né calda ne fredda (è ‘fresca’, è ‘tiepida’: a climatizzazione ottimale), senza grana né asperità (è ‘dolce’, è ‘vellutata’), senza un proprio spessore (la trasparenza della ‘tinta’), soprattutto senza orifizi (è ‘liscia’). Funzionalizzata come un rivestimento di cellophane. Tutte queste qualità (freschezza, elasticità, trasparenza, uniformità) son qualità “di chiusura” (Baudrillard).
Autopsia di un corpo amatissimo, o forse detestato al limite dell’ossessione, tanto da repertarne le “scopie”. Così il lavoro di Matilde Montanari, senza artifici tecnici, ma con il bisturi dell’inquadratura, ricapitola per zone, mappe, luoghi di segregazione nel corpo, il suo stesso corpo.
Sono istantanee, perciò, in qualche modo, hanno uno stretto legame con il senso di privazione della libertà. Nella fattispecie, il rapporto col mezzo diventa morboso, solitario ed esclusivo.
“Preferisco la mia condizione scalza”, scriveva dal suo isolamento febbrile Emily Dickinson; la più contemporanea delle poetesse, vergine vestale che ci supera dal pieno dell’Ottocento e racconta della sparizione alla Storia, del reclusorio dorato della sua stanza e, in fine, del gesto estremo di uscita dalla cronaca.

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