Cahiers du Festival
A cura di Angela Catrani
Appunti, note, sensazioni, scorci dai festival letterari più importanti italiani. Uno sguardo non convenzionale sugli eventi, brevi approfondimenti e divertite osservazioni.
Partecipare ai Festival letterari si può fare in due modi, sostanzialmente: seguire l’autore prediletto oppure immergersi tra le persone e coglierne sensazioni ed entusiasmi. In questa rubrica cercheremo di riportare entrambe le modalità avendo ben presente solo una condizione: divertirsi, nel senso più alto e nobile del termine.
Angela Catrani nasce a Rimini e vive a Bologna. Dopo la Maturità classica, si laurea con lode in Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Bologna. Appassionata lettrice fin da bambina, alla classica domanda su “cosa vuoi fare da grande” risponde “Leggere”. Dato il suo carattere determinato, persegue il suo obiettivo e ora di professione è editor professionista. Non aveva ancora terminato gli studi universitari e già lavorava in una casa editrice, Il Mulino, a cui è seguita una seconda casa editrice d’arte, FMR-Art’è; ha poi lavorato diversi anni per una piccola casa editrice di Imola, Corso Bacchilega editore, per cui ha curato la collana Bacchilega junior, raggiungendo ottimi risultati in termini di vendita e di premi. Scrive articoli per riviste on line e per blog. Ha molte passioni e grandi entusiasmi, tra cui i libri per bambini, che ritiene essere una delle più alte espressioni artistiche in cui si possano coniugare spontaneità, eccellenza e bellezza.
Immagine: Pittura romana antica, la scrivente
Partecipare ai Festival letterari si può fare in due modi, sostanzialmente: seguire l’autore prediletto oppure immergersi tra le persone e coglierne sensazioni ed entusiasmi. In questa rubrica cercheremo di riportare entrambe le modalità avendo ben presente solo una condizione: divertirsi, nel senso più alto e nobile del termine.
Festivaletteratura di Mantova 2016
Mantova # 137
Le risorse segrete dell’infanzia, con Silvia Vegetti Finzi e Moni Ovadia
di Angela Catrani
Silvia Vegetti Finzi è nata i primi di ottobre del 1938, pochi giorni dopo la promulgazione delle leggi razziali italiane. Di padre ebreo e di madre tedesca cattolica. Il padre era ingegnere in Abissinia, la famiglia era tornata in Italia per la nascita della bambina, ma con la promulgazione delle leggi razziali il padre decide di tornare in Abissinia per evitare di rimanere bloccato in Italia. La madre, venti giorni dopo la nascita di Silvia, segue il marito con il figlio più grande. Silvia viene abbandonata dalla madre, prima affidata alle cure di un una balia, poi a sei mesi, viene presa da una parente del padre, e portata in campagna. Cinque anni dopo ritorna in famiglia. Famiglia che, con le comunicazioni completamente interrotte dalla guerra, non aveva mai visto.
Silvia Vegetti Finzi è una delle maggiori studiose dell’identità femminile, della maternità e del rapporto genitori-figli. Docente di psicologia dinamica presso l’Università di Pavia, si è sempre dedicata ai bambini, agli adolescenti e al rapporto genitori-figli.
Nel suo ultimo libro, non un saggio ma un romanzo, “La bambina senza stella” edito da Guanda, rievoca in terza persona le vicende di se stessa piccolissima, affidandosi ai primissimi ricordi, alle prime sensazioni emotive, ai racconti di altri. Un racconto doloroso, inteso, a tratti anche straniante.
Nel suo incontro con i lettori, lettori commossi e attenti e partecipi, legge molte pagine del suo libro, libera insieme al suo pubblico (eravamo più di 300 persone) una forza potente, una empatia condivisa. Bambina abbandonata due volte, dalla madre e dalla balia, strappata ai suoi primi genitori, questa coppia di zii già anziani ma affettuosi e attenti, riesce con ottime risorse interne, fatte di immaginazione e di fantasia, a superare il dolore e la frustrazione. Ci riporta una immagine di sé bambina raccolta nel suo mondo di giochi, un mondo anche di parole, di racconti, di storie da inventare per sé e i suoi peluche, le sue bambole. La parola, il racconto e la narrazione hanno un potere salvifico, hanno la capacità di risistemare un mondo interiore che sarebbe terribile da gestire nella piena comprensione della realtà. Il pubblico mormorava, perché è terribile il pensiero di una neonata di famiglia ebraica abbandonata a venti giorni nell’Italia del 1938. Eppure erano tempi difficili, da capire e da gestire. La bambina viene messa a balia con il cognome materno, un cognome tedesco bavarese, probabilmente questo atto le salverà la vita, ma è difficile non entrare in connessione profonda con questa piccola vita abbandonata: il rimando all’oggi è necessario, e fa male, come sottolinea il bravissimo Moni Ovadia leggendo una poesia straziante sui bambini di oggi, sull’infanzia strappata nei territori di guerra, nel mare, nella negazione a volte di una possibilità di vita.
Mantova # 137
Attingere al mito, con Roberto Calasso e Antonio Franchini
di Angela Catrani
La produzione di Roberto Calasso si potrebbe paragonare a un albero frondoso con radici profonde e ramificate, così introduce l’opera di Calasso Antonio Franchini. I libri di Calasso raccontano varie storie di tutti i tempi storici.
Ne “Il Cacciatore celeste” la narrazione parte dall’uomo preistorico. Due eventi furono sintomo di una evoluzione dell’uomo: il passaggio al mangiar carne e il diventare cacciatore efficace avvalendosi di un gruppo di persone.
Il mangiare carne dà una sorta di ebbrezza all’uomo primitivo. La dieta carnea comincia molto prima dell’attività di caccia efficace. L’uomo mangia le carcasse uccise da altri. Come le iene, gli uomini utilizzano le selci per spezzare il midollo.
L’animale da uccidere assurge anche a divinità.
Il mondo era il regno della metamorfosi. L’uomo non sapeva incontrando un altro essere se questo fosse un altro uomo, un dio, un animale, un morto.
La metamorfosi è il fondamento. Ma questo avviene in ogni coscienza in ogni istante. Anche ora.
La prima figurazione unitaria del divino è l’orso. L’uomo primitivo esprime profonda reverenza proprio verso questo essere che però si è tenuti anche a uccidere. Lo sciamano è colui che accede al divino.
Tra la caccia e il divino esiste un confine sanguinoso per cui qualcosa deve essere ucciso, ma non è l’uccisione in sé la colpa. La colpa è il cambiamento di etogramma: l’uomo non segue più quello che fanno i primati, muta il suo etogramma, imitando quello che fanno i suoi uccisori e uscendo così dal puro istinto. Usa la protesi per poter uccidere più efficacemente. La protesi è quanto di più astratto: anche il pensiero è concepito come una protesi che si può applicare e dismettere. La conoscenza è una trasformazione metamorfica.
I miti greci della caccia hanno una importanza centrale. Orione è il cacciatore celeste, che appare fin da Omero. Figura mitica enigmatica.
Non esiste una narrazione continua del mito di Orione. Si ha una storia contraddittoria, essere maschile bellissimo, il più bello, ma a volte è presentato come un bruto. È l’amante di Artemis, muore ucciso da Apollo, l’altro amante segreto della sorella gemella. Orione viene ucciso da una freccia di Artemis, ingannata da Apollo.
Il mito di Orione è molto antico, addirittura potrebbe risalire al paleolitico.
E molto altro ancora…
Sintetizzare il pensiero limpido di Roberto Calasso nei limiti di un articolo è riduttivo, e questo può essere evidente. Quello che mi ha colpito è stata l’estrema chiarezza del suo periodare, un linguaggio colto senza essere saccente, una passione che trapelava da ogni parola.
Davvero una emozione incontrare l’autore di “Cadmo e Armonia”, il mio libro del cuore dei 18 anni, prezioso regalo dei miei genitori, responsabile del mio amore per il mito greco e latino.
Contapassi Mantova
di Angela Catrani
A Mantova si cammina.
Tra le indicazioni del festival, sul sito, sui social e ovunque, c’è la raccomandazione di indossare scarpe comode.
A Mantova, però, si cammina su dei sassetti malefici, che spuntano acuti dalla terra.
Quando meno te lo aspetti infatti, colpito dalla bellezza di piazza Sordello, cuore del Festival, il piede incontra il tappeto di sassi. Non sono come i sanpietrini romani o i sassi presenti in Piazza Santo Stefano a Bologna. No, questi pervadono pervicacemente e insistentemente tutta la pavimentazione del centro storico. Arredo urbano sicuramente gradevole, ma che dolore! Quindi non solo scarpe comode per camminare, piuttosto scarpe comode e piedi larghi, per poter gestire al meglio questa scomoda realtà urbana.
A Mantova si cammina, dicevo.
Gli anni scorsi non mi rendevo conto dei passi fatti, se non per un senso di stanchezza infinito nel momento del riposo notturno. Quest’anno la mia amica Carla, che ha fatto con me parte di queste giornate mantovane aveva una app nel suo cellulare che contava i passi. Alla sera, dunque, si riassumeva la fatica odierna. 18.000 passi! 16.700 passi! 13.000 passi! Numeri impressionanti, nevvero?
L’uomo nasce camminatore. Come diceva anche Calasso nel suo incontro, a un certo punto qualche uomo primitivo esce dalla grotta, smette di mangiare resti di cadaveri uccisi da altri animali, esplora il mondo intorno e sé e inizia a cacciare. I piedi, dunque, assumono una funzione fondamentale: trasportano, sono avvezzi alla fatica, si arrampicano; le leve sono agili e funzionali.
La sedentarietà è il vero male dell’Antropocene: l’uomo odierno utilizza un mezzo di trasporto anche per fare pochi metri e applica questa sua sedentarietà ai figli. La sedentarietà è all’origine di diversi problemi di salute, dall’obesità alla stitichezza, al mal di schiena, ai problemi di circolazione sanguigna.
Mantova, dunque, cura la mente, con incontri stimolanti e interessanti, addirittura epici quando si incontra Roberto Calasso, e cura il corpo, camminando abbondantemente.
Se non fosse, appunto, per i sassetti.
Venite a Mantova con scarpe comode, molta pazienza e buona attitudine al sacrificio e soprattutto, non per togliersi qualche sassetto dalla scarpa!
Mantova # 102
Il Talmud in italiano, con Giulio Busi e Stefano Levi della Torre
di Angela Catrani
Per la prima volta è stata approntata la traduzione del Talmud babilonese in italiano, sotto la direzione di Riccardo Di Segni, rabbino capo della comunità di Roma, pubblicato a cura di Giuntina (ottenendo un sorprendete consenso di pubblico).
Il Talmud è il libro più perseguitato, bruciato e ignorato della cultura europea.
Chi lo ha condannato non l’aveva letto, si fidava di denunce anche anonime, spesso da parte di neofiti che volevano accusare il Talmud per ottenere dei vantaggi personali.
Solo l’umanista tedesco Johannes Reuchlin disse che prima di condannare e bruciare un libro andrebbe letto, altrimenti sarebbe solo un atto barbarico. Per questa affermazione fu vituperato a lungo, disdegnato, giudicato malamente.
Ma cos’è il Talmud? Sostanzialmente è un libro giuridico: riguarda infatti le norme di condotta della vita ebraica; inoltre spiega e narra la Torà. Il Talmud nasce quando Israele perde la propria autonomia, dopo la distruzione del secondo tempio. È un testo spiegato, non rivelato. La discussione è parte fondante del Talmud. È un libro molto umano.
Perché la cultura cristiana ha così paura del Talmud? Perché questo libro ha permesso al popolo ebraico di continuare a esistere, in maniera indipendente e orgogliosa.
È l’unico corpus letterario di una cultura minoritaria che dimostra nei fatti che tramite una narrazione condivisa si può continuare ad esistere.
Il testo nasce da un piccolo gruppo di intellettuali che si immaginò come dovesse continuare a vivere il popolo di Israele a partire dal racconto di cose che erano state distrutte (per esempio il Secondo Tempio: centinaia di passi del Talmud sono dedicate alle pratiche rituali che avvenivano all’interno del Tempio): la fedeltà al passato viene considerato il presupposto per il futuro.
Il Talmud nasce da una catastrofe, la distruzione del Tempio di Salomone a opera dei romani nel 79 d.C., seguita dalla cacciata degli ebrei dalla Palestina nel 135 d.C. Sotto l’imperatore Adriano. Il primo atto di volontà di ricostituzione del popolo di Israele è la Mishnà, o Torà scritta, per codificare tutti gli aspetti della vita ebraica.
Dalla catastrofe nascono due strade, dunque, una che sente Dio allontanarsi e quindi sceglie di interpretarlo (Tramite Mishnà e Talmud) e l’altra che decide che Dio si è fatto uomo (sfociata poi nel Cristianesimo).
Infine il Talmud nasce anche da un paradosso, da una trasgressione, perché la Torà vieta di riprodurre scritta la parola di Dio. Invece il Talmud riproduce in forma scritta la Torà, ma lo fa in forma dialogica, quindi in una forma che si potrebbe associare alla forma orale.
Leggere il Talmud oggi, da parte di persone che si accostino al testo per curiosità può rappresentare davvero una grande opportunità di conoscenza vera di un mondo che in qualche misura non esiste più, ma che pure continua, resistente.
Mantova # 38
Le due facce della famiglia, con Jami Attenberg e Wlodek Goldkorn
di Angela Catrani
Chi ha letto “I Middelstein” di Jami Attenberg (Giuntina) avrà sicuramente apprezzato l’energia che pervade questo romanzo allo stesso tempo tragico e ironico.
Incontrando Jami Attenberg al Festivaletteratura di Mantova ritrovo l’energia, l’ironia, uno spirito caustico e diretto.
La scrittrice americana presenta il suo nuovo romanzo edito in Italia nuovamente da Giuntina, “Santa Mazie”, la storia di una donna vissuta tra le due guerre mondiali in un quartiere povero di Mahnattan, diventata famosa per aver cercato di aiutare i poveri, soprattutto i barboni alcolizzati che sopravvivono nei bassifondi.
La Attenberg, leggendone la storia sul New Yorker, cerca prima notizie vere e attendibili, possibilmente da persone ancora vive che l’avessero conosciuta. Ma il tempo è tiranno e cinquant’anni sono troppi per testimonianze ancora vive. Decide così di inventare delle testimonianze, la sorella, un vicino e l’amante di Mazie, persone realmente esistite, che risorgono nell’immaginazione della scrittrice.
Dunque il romanzo è una finzione, ma costruito come un documentario, con una tecnica quasi cinematografica.
Santa Mazie, santificata da vox populi, ma moderna Santa bevitrice, che si godeva la vita e gli uomini, è uno di quei personaggi che nascono descritti da chi li conosce bene. Verità e finzione si intrecciano: il personaggio inventato dalla penna della Attenberg prende vita e si innesta tra i pensieri della scrittrice.
Quando uno scrittore osserva, immagina e vive la vita dei suoi protagonisti entra nel regno del possibile, del probabile, del già visto.
Perché no in fondo?
Mantova # 16
Di famiglia in famiglia, con Siegmund Ginzberg e Wlodek Goldkorn, presenta Paolo di Paolo
di Angela Catrani
“Spie e zie” di Siegmund Ginzberg e “Il bambino nella neve” di Woldek Goldkorn sono entrambe storie di famiglie speciali, che incrociano tragedie ed eventi del Novecento europeo.
Entrambi gli autori sono di origini non italiane, ma hanno scelto di vivere e lavorare in Italia. Scrivere in una lingua che non è la loro lingua materna ha comportato alcune difficoltà. Goldkorn, però, pone una attenzione maniacale alla forma, al linguaggio, alla musicalità. È convinto, infatti, che gli scrittori italiani raccontino storie ma non curino la lingua, non siano attenti alla forma.
I due autori partono dalle fotografie di famiglia per le loro narrazioni, aprono con queste fotografie, che non vedremo, una pista all’interno dei romanzi. La fotografia è la realtà, testimone muto ma vivo di qualcosa che c’era, portatore di un ricordo che si fa affetto e rimpianto. La fotografia della nonna viene portata nel portafoglio, e non fatta vedere a nessuno.
Ginzberg loda il libro di Goldkorn e lo presenta. “Il bambino nella neve” è sia una storia di famiglia sia una storia di Auschwitz.
Hanno molti punti in comune i due autori: entrambi di origini ebraiche, hanno avuto voglia e bisogno di raccontare le storie di famiglia. Conoscere, raccontare e dimenticare, per potere poi riuscire a vivere. È ricorrente questa necessità nella scrittura ebraica post Auschwitz. Riversare nella scrittura una sofferenza da risolvere diventa un bisogno primario.
Sono famiglie piene di segreti, di racconti sottintesi, di parole sussurrate e non ritenute adatte alle orecchie dei bambini.
Sono, soprattutto, famiglie che migrano alla ricerca di sicurezza, di salvezza, di scampare alla guerra e all’orrore. Dalla Turchia e dalla Polonia, attraverso l’Europa e il Mediterraneo, a volte con un percorso inverso che fanno i migranti odierni, che cercano in Europa una speranza di vita.
Si invoca la salvezza, per questi moderni migranti, si invoca una possibilità, per non ritrovarsi, in un futuro vicino, a dover piangere queste centinaia di morti. Si va ad Auschwitz, e non si accoglie chi vive l’orrore.
Non c’è mai, in queste dolenti narrazioni (soprattutto ne “Il bambino nella neve” di Goldkorn) un sentimento di odio, di risentimento personale. La lingua diventa glaciale, fredda, netta, essenziale. Non si usano sinonimi o aggettivi.
Solo così, solo scegliendo accuratamente le parole, si può descrivere l’orrore.
La lezione di Primo Levi ne “I sommersi e i salvati” è fondamentale per entrambi gli autori, che nello scrittore ebreo italiano trovano un maestro e un precursore.
Festivaletteratura di Mantova 2015
Mantova # 11
Mantova ha una sontuosa e decadente bellezza
di Angela Catrani
Mantova ha una sontuosa e decadente bellezza, che non traspare quasi durante gli affollatissimi giorni del Festivaletteratura.
Ha un castello, una cattedrale, una piazza, un museo, un teatro settecentesco che è un vero gioiello, ha un sistema di piazze inanellate una all’altra, ha un battistero, ha vie ampie e viottoli stretti. Ha case decorate e case fatiscenti, ha un fiume, mura medievali, ha giardini bellissimi e ampi parchi. Ha la stazione dei treni con il sistema viario più complicato del mondo. Ha ottime gelaterie e ottimi ristoranti.
Ha i tortelli di zucca e gli gnocchi di zucca più buoni che abbia mai mangiato in vita mia. Ha un lago con in mezzo oasi di fiori di loto, con cigni e anatre.
Ha grandi librerie, ha una casa editrice che fa libri d’arte che sono dei veri gioielli.
Ha un Festival meraviglioso. E questo festival ha un sistema organizzativo che prevede 700 volontari tra i 16 e i 25 anni, ragazzi gentilissimi, che lavorano 20 ore al giorno per garantire la riuscita di 350 eventi in 5 giorni.
A Mantova, infine, ci sono i mantovani. E non è mica scontato che ci siano e siano entusiasti di questo festival e prendano le ferie per poter partecipare al Festivaletteratura!
Durante le lunghe attese per entrare agli eventi ho avuto modo di parlare con tante persone, alcuni come me, fedeli e felici, che attraversano tutta l’Italia per godere dell’atmosfera speciale di questa festa della letteratura, ma molti, moltissimi, di Mantova. E li vedi che sono proprio contenti del tripudio festoso che sconvolge la città per cinque giorni. Li senti che si lamentano che negli altri 360 giorni Mantova sonnecchia, pigra e decadente, come una dama del Settecento tra una festa e l’altra.
Il Festivaletteratura è finito: mi ha rigenerato, stancato, mi ha fatto innamorare, mi ha reso felice.
Mantova # 10
Vanna Vinci è una creatrice di fumetti
di Angela Catrani
Vanna Vinci è una creatrice di fumetti, una illustratrice, una autrice. Molto nota in Italia e all’estero, ha pubblicato per i migliori editori di fumetti europei, e una gigantografia della sua Bambina filosofica campeggia su un palazzo alto dieci metri di Bruxelles.
Ma è soprattutto una persona curiosa, che approfondisce, che studia, che si interessa alle biografie soprattutto femminili, soprattutto se di personaggi scomodi, donne egoiste, edoniste, autonome fino alla perdizione (La Casati, Tamara de Lempicka solo per citare i sue libri a fumetti più famosi). Al Festivaletteratura dialoga con Chiara Codecà, esperta di Letteratura per ragazzi, e con generosità e verve si racconta.
Vanna nasce in Sardegna, ha vissuto poi a Bologna e Milano.
Disegna fin da bambina, fin da quando sua madre le regala il fumetto di Corto Maltese di Hugo Pratt: una vera rivelazione e un amore che non si esaurisce.
Ha poi fatto la grafica pubblicitaria per anni, ha lavorato come artigiana del fumetto, senza arrendersi, cercando un suo tratto distintivo e avendo sempre in mente delle storie da raccontare.
Vanna Vinci ama raccontare delle storie, e per raccontarle entra nei dettagli dei personaggi da narrare: oltre a studiare tutto quello che trova in giro per biblioteche e librerie, spesso e volentieri, ama ripercorrere le medesime strade, vie, città. Scorci, vedute, viottoli: armata della sua macchina fotografica, si immerge completamente nel paesaggio, per poi riprodurlo nelle sue tavole ad acquerello.
La Bambina filosofica, personaggio straordinario alla pari con Mafalda e i Peanuts per arguzia, intelligenza e una punta di ficcante cattiveria, rappresenta lo sguardo sul mondo di Vanna, è il suo alter ego senza peli sulla lingua. La cura e la competenza di questa autrice, la gentilezza con cui ha disegnato per firmare i tanti libri dei suoi ammiratori, la simpatia immediata, la spontaneità e la freschezza con cui ha rivelato le sue letture e le sue passioni musicali, hanno reso questo incontro con l’autore uno degli incontri più belli del Festivaletteratura.
Piccola nota personale: amo moltissimo i fumetti, trovo che raccontino con una profondità senza pari le migliori storie della letteratura. Genere molto di nicchia, solo da poco il fumetto ha trovato una buona collocazione e visibilità nelle librerie non specifiche per fumetti. Una autrice come Vanna Vinci, scrittrice, illustratrice, fumettista, filosofa nichilista, può dialogare alla pari (e forse anche offrire spunti migliori) con scrittori noti, per lo più uomini.
Mantova # 9
Evento N° 99, venerdì 11 settembre 2015 0re 15,30 Seminario Vescovile
di Giorgio Vitolo
(In una bellissima sala, circa 300 persone, Bruno Gambarotta ha intervistato Pupi Avati parlando anche del suo primo libro, in una atmosfera magica e divertentissima, preceduta dalla premessa: Non aspettatevi di avere davanti due persone serie! La scoperta è stata la grande capacità narrativa ed affabulatoria di Avati, capace di tenere col fiato sospeso un uditorio attentissimo).
IL MESTIERE DEL NARRATORE.
Il narratore è un personaggio superiore allo scrittore perché esiste da sempre. 800.000 anni fa, nelle grotte, l’uomo raccontava le sue cacce aiutandosi con disegni ed immagini.
La scrittura nasce solo 6.000 anni fa e non per un racconto, ma per registrare un debito, ricordare il dare e l’avere.
Pupi Avati è un grande narratore che, dopo aver fatto tanti film, ha scritto un libro, proprio quando questi non si vendono più. “Sono nato a Bologna, in centro, ma cresciuto da subito nella cultura contadina ed educato dai Gesuiti. Tutto il mondo che racconto nasce dalle favole contadine e dalla paura che queste provocavano a noi ragazzi (cinni) nel buio delle notti in campagna e, soprattutto, nelle camere buie in soffitta, dove dormivamo.”
Il ragazzo in soffitta è un libro magnifico, un noir con descrizioni, montaggio e sceneggiature magnifiche.
“Altro elemento delle campagne è il rapporto con la morte, non il terrore attuale, ma il rapporto quotidiano e discorsivo con i morti e la morte. Si era educati alla morte. Ad esempio c’era una mia zia che passò molto tempo della sua vita a cercare il tipo di sepoltura da avere, i vestiti con cui essere vestita nella bara, la frase da scrivere sulla lapide. Andò anche da un fotografo professionista, cosa molto rara in quel periodo, per farsi scattare la foto da mettere sulla tomba. E girando durante le domeniche con il marito per i paesi dei dintorni per scegliere il cimitero giusto, con la giusta vista e l’aria migliore, dove venir seppellita.
Questo rapporto che si aveva con la morte ha fatto sì che oggi io conviva con i morti, le loro fotografie ed i loro sorrisi.
Il rapporto con i morti mi ha fatto sentire la necessità di allargare gli spazi della vita.”
Nel libro c’è, a capitoli alterni, la storia di un ragazzino che in prima persona racconta la sua infanzia a Bologna, e quella di un uomo che, in terza persona e ambientata a Trieste 20 anni prima, racconta la sua vita. Queste due storie si incrociano solo a pagina 70 in maniera drammatica. “A Bologna erano poche le donne belle e bisognava trovare qualcosa per farsi notare, specie se non si era belli, ricchi o atletici. Le ho provate tutte: Scienze politiche per poter diventare Diplomatico (e guadagnarne in fascino esotico), ma ho scoperto che bisognava studiare, Veterinaria per conquistare una bella col barboncino. E infine il Jazz, con il clarinetto, per farsi notare e diventare interessante.
E c’ero riuscito: suonavo con una band di professori ginecologi anche bravini. Facevamo tournee in Italia ed in Europa. Poi un giorno si decise di far entrare un secondo clarinetto, che però non aveva esperienza o tecnica. Ogni tanto gli davo qualche suggerimento su come usare lo strumento, ma non gli davamo molto spazio: un piccolo intervento nel primo tempo, un altro nel secondo, poi basta. Ma un giorno Lucio decise di fare un assolo e prendersi più spazio e scoprii che il talento era superiore a qualsiasi pratica o studio. Provai tantissima invidia e gelosia alle stelle. In seguito, però, il mio rapporto con Dalla proseguì con una grande amicizia e collaborazione professionale.
Però capii che il jazz non era la mia strada con cui sfondare.
Un giorno, già sposato, con 2 figli ed un buon lavoro alla Findus, a causa di un cliente che mi diede buca ad un appuntamento, entrai in un cinema a spettacolo iniziato e scoprii cos’era il vero cinema e cosa volevo fare da grande!
Il film era 8 e ½ e mi ha cambiato la vita: corsi dagli amici e riuscii a convincerli e coinvolgerli nell’avventura di fare un film. E siamo partiti (eravamo a ridosso del ’68), senza aiuti, senza chance ma con tantissimo entusiasmo.
[Alcuni aneddoti, magnifici e divertentissimi su come è iniziato tutto e sulle persone incontrate]
Alla fine riuscimmo ad avere 160 milioni di lire per il I° film, nel ’74, quando Bellocchio aveva fatto il suo con soli 48 milioni. E fu un clamoroso fiasco.”
Il libro è magnifico, divertente ed avvincente, intenso al punto che non si può interrompere: hai già pensato di portarlo sul grande schermo? “Un libro, se è compiuto, non ha senso trasformarlo in film: aggiungervi delle immagini significa togliere qualcosa alla fantasia del lettore. La vita contadina è come la salita di una collina: faticosa, con una scarsa visuale e con la possibilità di scoprire cosa c’è dall’altra parte solo un attimo prima dell’inizio della discesa.
Ma è anche un ellisse con i suoi 4 quadranti: adolescenza, maturità e, allo scollinamento, l’inizio del disapprendimento. Comincia la perdita di qualcosa ogni giorno, una parola, un volto, un ricordo. Poi, però, comincia il 4° quadrante, quando alla nostalgia dell’adolescenza si sostituisce quella dell’infanzia: si riscopre la debolezza e la vulnerabilità, quella che accomuna vecchi e bambini, capaci di venir feriti da tutto e da tutti a causa di una maggiore sensibilità”.
Mantova #8
Quest’anno mi sono concessa ..
di Virginia Stefanini
Quest’anno mi sono concessa un’immersione di due giorni a Festivaletteratura, facendo una pausa dal mio lavoro di bibliotecaria, sempre restando immersa nei libri: deve essere una mania!
Pur concedendomi il piacere di ascoltare autori, critici e attori per il puro gusto della scoperta, la mia passione per i libri per ragazzi mi ha inevitabilmente portata sulle tracce degli incontri dedicati ai più giovani, che in questo festival sono ogni anno sempre più numerosi e interessanti.
Ho cominciato giovedì mattina, assistendo ad una lettura di Paolo Nori dai suoi La bambina fulminante e La piccola Battaglia portatile: azzeccata l’idea di affiancargli la fumettista Vanna Vinci, che ha reinterpretato graficamente, disegnando in diretta, alcuni passaggi del racconto, trasformandoli in vignette argute. Sarà che la Bambina filosofica assomiglia tanto alle piccole protagoniste di Nori, spontanee fino al punto di non avere peli sulla lingua, ma battute e disegni sembravano fatti l’uno per l’altro. Una formula da replicare per futuri incontri con autori.
Venerdì è stato il giorno dei gruppi di lettura: quasi novanta ragazzi di Mantova, Verona e Rimini (vestiti con le magliette del “loro” festival Mare di Libri) hanno pacificamente invaso gli incontri a loro dedicati. Si vocifera che la delegazione riminese si fosse alzata alle cinque per prendere il treno e raggiungere Mantova e, a quanto ho potuto costatare, visto il programma previsto per loro ne è valsa la pena.
Al mattino Simonetta Bitasi e Chiara Codecà, insieme al mio beniamino Bjorn Larsson, autore di La vera storia del pirata Long John Silver, hanno animato un dibattito divertente e molto partecipato sulla fan fiction, ossia le riscritture amatoriali (ma non solo) di personaggi e saghe famose. Lo sapevate che la popolare saga Shadow hunters di Cassandra Clare nacque come fan fiction di Harry Potter? E che J. K. Rowling ha chiesto ai suoi fan di pubblicare le loro storie su internet ma non inviargliele direttamente, per timore di esserne influenzata e venire un giorno accusata di plagio? Un fenomeno amplificato da internet e molto sentito dai ragazzi, che le fan fiction le leggono, le scrivono, le traducono e le vivono come un atto terapeutico o persino di ribellione. Sono uscita dall’incontro della stessa opinione espressa da Larsson: per una volta ho imparato tanto dal pubblico, più che dagli autori, e ho avuto la conferma che i ragazzi che leggono sono davvero appassionati e credono nel potere della finzione. Magnifico!
Dopo pranzo (al sacco per i ragazzi, in osteria per me) è la volta dell’incontro con Susin Nielsen, autrice canadese del recente Siamo tutti fatti di molecole, di Caro George Clooney, vuoi sposare la mia mamma? e Lo sfigato, intervistata per l’occasione da Lella Costa. La vivace conversazione ha spaziato fra tutti i temi dei libri di Susin, le famiglie allargate, i pensieri che frullano per la testa dei ragazzi, le emozioni delle prime volte… e la passione per Clooney. Ai ragazzi che le hanno chiesto consigli sul mestiere di scrittore, l’autrice ha risposto con sincerità e arguzia: non scoraggiatevi di fronte ai primi fallimenti… e se una sorella aspirante scrittrice vi ruba il computer per ore, non c’è niente da fare: gli scrittori moderni non scrivono a mano!
Susin Nielsen è un’autrice spiritosa e anche di persona molto simpatica: ho avuto la fortuna di farle qualche domanda per il mio blog e ho capito che i suoi personaggi le corrispondono e lei li ama profondamente, tanto da farli ricomparire da un libro all’altro.
Durante il mio passaggio di sfuggita in sala stampa, ho “origliato” lo scrittore Matteo Corradini raccontare la notte movimentata e piena di confidenze trascorsa con i volontari under 26 del festival, autentica colonna portante dell’intera manifestazione. La cronaca completa è comparsa sul sito del Festival.
Ecco allora il mio piccolo rimpianto: perché quando ero più giovane io non c’erano gruppi di lettura per ragazzi a cui partecipare e festival letterari per i quali offrirsi volontari?
Mantova #7
Il suono della letteratura
di Isabella Franchini
Tanti gli eventi, le suggestioni e le ispirazioni in questa giornata di festival. Il piacere di spaziare tra gli autori: paesi diversi, poetiche, stili e contenuti eterogenei. Un viaggio nella parola, la frenesia bulimica di nutrirsi di piatti dai sapori sempre nuovi al tavolo della letteratura. A volte, anche la sorpresa di argomenti trasversali, apparentemente non connessi alla parola scritta.
Oggi, ad esempio, doveva esserci la Musa della Musica affacciata sul Festival, mentre si parlava di suono negli eventi con Genovesi, Capossela e O’Connor. Ciascun autore, in maniera indipendente, ha illustrato la propria passione, l’ispirazione e il legame con la musica presente nella propria vita e produzione scritta.
Certo, ce lo aspettavamo da Capossela, che nasce come musicista e cantautore, e che parla di musica nella narrazione.
Indossando il celebre panama, con quella voce un po’ soffiata, introduce la sua geografia dell’immaginario, che si può fare racconto o canzone. Il cantore, dice, sta dietro ai canti, li segue, come un pastore le sue greggi, con un processo che fluisce naturalmente, che va dal canto alla parola.
Capossela si esprime, di fatto, contemporaneamente in musica e con la parola scritta. Genovesi, al suo fianco, parla invece delle musiche che nutrono il suo romanzo ‘Dove nascono le onde’. Per l’autore di Forte dei Marmi, fresco di Premio Strega Ragazzi, la musica è stata il primo amore, in adolescenza (a suo dire non ricambiato), e la prima fonte di ispirazione. ‘La musica era più anarchica’, dice, e poi ancora: ‘Le canzoni ti salvano’. Dipinge un paesaggio di provincia, di paeselli i cui abitanti nascono veramente, diventano qualcuno solo nel momento in cui la comunitá ha loro attribuito un soprannome, in cui la musica è l’unica fuga e il raccontare storie, magari un po’ fantasiose, rende sopportabile la veritá e crea un legame tra le persone. ‘La musica e le storie sono lo psicofarmaco più efficace e indolore’, conclude Genovesi.
A qualche isolato di distanza, poco dopo, ascoltiamo Joseph O’Connor, autore irlandese, che si contende la fama con la sorella cantante Sinead. ‘Nel mio cuore c’era un’ infelicità che mi indirizzava alla musica’, dice il protagonista del suo romanzo ‘Il gruppo’, e l’autore chiarisce che all’arte, e alla musica in particolare, ci rivolgiamo per la consolazione e per il piacere. L’autore irlandese parla con una passione evidente e un delicato rispetto di quest’arte astratta e dolce, che apre una porta e ci mette a contatto con la nostra essenza più intima, con i ricordi e la bellezza. Sottolinea l’importanza del suono nella scrittura degli autori irlandesi e rivela di insegnare ai suoi studenti all’Università di Limerick che un testo va letto ad alta voce perché se ne disveli la qualità e l’equilibrio. Il suono e la musica, aggiunge, sono così importanti che ci parlano della ‘verità’ delle persone: O’Connor sostiene che ‘una persona che non vuole cantare ha qualcosa da nascondere’, e sogna ‘Songland’, un mondo senza confini, fatto di verità e di bellezza. Ma quel che più colpisce è la frase, quasi surreale per uno scrittore, in cui afferma che ‘La musica è un modo di far conversazione senza parlare’. Non stupisce che il suo ultimo romanzo sia accompagnato da una playlist consultabile su internet, e scaricabile su Spotify, che ambienta e completa le parole dei personaggi.
Chissà che tutte queste suggestioni musicali non ci portino ad un futuro Festival di musica e letteratura…
Mantova #6
Ceno un po’ presto ad un buffet con un aperitivo
di Cecilia Deni
Ceno un po’ presto ad un buffet con un aperitivo, ma non avrei più tempo fino a tarda sera (Mi aspettano Carofiglio e a seguire Giorgio Vallortigara).
Attorno a me una folla anima la bella piazza Sordello. Gente seduta ai tavoli dei molti locali, altra che sciama avanti e indietro, chi si riposa sulle rare panchine, furgoni televisivi, musica, souvenir, un fisarmonicista, tanti ciclisti con le bici a mano: ma io riascolto le parole di Franco, gioielliere artigiano a pochi passi da qui, in via Cavour, proprio all’angolo con la rinomata Osteria delle Quattro Tette.
Tutti i suoi parenti e amici lavorano in qualche modo coi volontari per il Festival, la nostra unica occasione, dice, perché qui, sa, finita questa settimana, più niente. Per tutto l’anno Mantova è morta. Niente spettacoli, vita sociale, niente. Il bel Teatro dei Bibiena, un gioiellino, per fortuna l’hanno riaperto: era sempre chiuso, come il Teatro Sociale. Ma aperto adesso e poi? poco per i mantovani, quasi niente. Vede, noi avevamo un sindaco, una volta, ed era bravo: fece lui una meravigliosa mostra sui tesori dei Gonzaga. Ricordo che feci fare questa spilla, una salamandra d’argento, sul modello di questa, vede, che è esposta al museo. Ne ho vendute tante, perché la cultura trascina, trascina tante cose, sa? La gente si organizza, un B&B come quello dove sta lei, una bancarella di portatorte in feltro artigianali, io stesso con i miei lavori di cristalli, pietre dure, perle, si fa un po’ di cassetto, si tira su qualcosa per il resto dell’anno. E poi, abbiamo avuto altri sindaci, giovani, volenterosi, ma non è un lavoro facile come sembra quello di amministrare. E adesso c’è un giovane, noi ci si crede e ci si spera tanto, speriamo riesca a fare.
Ma, rispondo, la nostra impressione è tanto buona. La cortesia, la buona cucina, il rispetto: non viene spennato, a Mantova, il turista e per chi come me viene da Bologna non si può dire che la città sia cara. Prenda la trattoria qui a fianco, le Quattro Tette. Si fa la fila, è vero, ma abbiamo mangiato meravigliosamente e speso proprio poco. Peccato che non aprano alla sera.
Si, dice, ma lei non li conosce. È quello il loro pensiero, la loro filosofia. Si lavora, si lavora bene, ma si vive anche, a che servirebbe altrimenti guadagnare?
Mantova #5
Moniza Alvi con Paola Splendore. Presentazione di “Un mondo diviso” edito da Donzelli Poesia
di Cecilia Deni
Gli incontri dedicati alla poesia, anche a Mantova, si svolgono in piccole sale ed hanno scarso afflusso di pubblico; tuttavia una cinquantina di persone viene ad assistere alla presetnazione della versione italiana, con testo a fronte, delle poesie di Moniza Alvi, autrice di padre pakistano e di madre inglese, dall’identità divisa.
In tutta la sua poesia, ci racconta Paola Splendore, la sua traduttrice, cerca una prospettiva laterale, defiliata; la sua prima raccolta, del 93, si chiama “Un Paese alle mie spalle” Quel paese, il Pakistan, è una realtà fiabesca e immaginata da una bambina che non vi ha mai vissuto.
La presente antologia, pubblicata da Donzelli, contiene una scelta di pezzi contenuti nelle sue raccolte.
Una poesia molto legata alle immagini, molto colorata e pittorica. La prima poesia della lettura si intitola vorrei essere un punto in un quadro di Mirò. Le sue ormai otto raccolte originali hanno in copertina dei meravigliosi quadri, ognuno dei quali è spunto per una poesia contenuta appunto in quella raccolta.
“Il fatto di essere cresciuta in Inghilterra, dice Moniza, pur essendo pakistana mi ha fatto sentire al margine delle cose e questo è un posto bello da cui scrivere. I quadri di Mirò io li volevo in certo modo animare, volevo creare una storia a partire da questi quadri.” Continua, Moniza, leggendoci e raccontandoci altre poesie: “il Sari”, “E se”, “Il matrimonio”, “Fantasmi”, “Sangue”, “Come il mondo si spaccò in due”, e mi porta a guardare con i suoi occhi “a gusty English lane/where rain makes mirrors/in the holes” e mi racconta il presente come fosse un passato: “l’ostilità veniva tramandata/ come un cimelio./ I fucili crescevano insieme ai bambini,/ spuntando come ossa dalla tenera pelle”.
Come ogni vero poeta, questa donna ci ha fatto piangere con una sua poesia inedita, “The camp”, e per questo soprattutto la ringrazio.
Mantova #4
Il Festival della Letteratura di Mantova comincia alla spicciolata
di Cecilia Deni
Il Festival della Letteratura di Mantova comincia alla spicciolata. Ci aspettavamo delle code alla biglietteria, invece troviamo tanti bellisssimi ragazzi attenti e gentili, non facciamo code e ci offrono un caffè. Ci aspettavamo un inizio sottotono nella prima giornata, come gli scorsi anni, invece già i primi eventi sono stracolmi e il tabellone riassuntivo è cosparso di bollini rossi che indicano gli eventi già esauriti. Noi che, previdenti, abbiamo prenotato in anticipo forti della nostra tesserina di soci filofestival, ritiriamo ognuno, soddisfatti, il corposo carnet dei biglietti e ci avviamo con calma in una giornata perfetta: confortevolmente calda e soleggiata, ma gradevolmente ventilata. Una passeggiata di ambientamento ci fa ritrovare i luoghi e i punti di riferimento conosciuti, arredati anche quest’anno con colorate piante in fiore.
Ho lasciato i miei figli dicendo: “vado alla mia gita non-scolastica” e pregusto già le conoscenze con perfetti sconosciuti resi amici dalle letture condivise.
Mantova #3
È il primo pomeriggio del festival e Mantova è piena
di Angela Catrani
È il primo pomeriggio del festival e Mantova è piena. Lunghe file per ogni evento, persone felici, composte, ordinate.
L’età media è abbastanza elevata e la percentuale di donne altissima.
Ascolto commenti, chiacchiere, mi perdo nella piccola confusione prodotta da centinaia di persone intorno a me.
Mentre attendo di entrare all’evento 8 intitolato “Le immagini e il potere”, con Carlo Ginzburg e Salvatore Settis, penso ai lettori italiani, agli appassionati festivaioli, quelle persone che girano l’Italia incontrando gli scrittori italiani e stranieri. Cosa ci spinge? Sicuramente la curiosità, poi un desiderio di conferma, inoltre la volontà di imparare, infine il desiderio di continuare a respirare quel benessere prodotto dalla lettura dei libri.
Conoscevo Ginzburg come storico, naturalmente. Professore universitario, ha insegnato molti anni in America, ha effettuato ricerche importanti e scritto saggi fondamentali. Ma non lo avevo mai visto. È un uomo vigoroso, scattante, nonostante l’età, curioso e appassionato. La curiosità è la caratteristica che mi si aggancia addosso, e che mi spinge a rimembrare ricordi lontani, quando a 13 anni ho incontrato sua madre, la scrittrice Natalia Ginzburg. Credo che all’epoca potesse avere più o meno l’età del figlio ora, donna alta, imponente, gentile senza essere sdolcinata di fronte alla mia domanda da ragazzina, ma soprattutto curiosa, curiosa di conoscere il mondo.
Lo storico racconta il suo ultimo libro uscito per Adelphi, “Paura, reverenza, terrore”.
Il libro è nato da una “pista improbabile”, secondo la definizione data da Salvatore Settis nella sua recensione su Il Sole 24 ore: guardando delle immagini note, il professore si accorge di alcune somiglianze di tipo morfologico con altre immagini anche lontanissime nel tempo. E da questa somiglianza nasce il guizzo della curiosità: cosa è successo? È possibile che il secondo pittore o illustratore o scultore, abbia visto la prima immagine? E dunque nasce da qui una ricerca precisa e storiografica, per trovare conferma a una intuizione.
Dialoga con il professor Ginzburg, Salvatore Settis, professore di archeologia in prestigiose università italiane e straniere, notissimo anche per le sue impegnate prese di posizione verso la situazione culturale italiana.
Il dialogo tra i due emeriti storici procede in maniera quasi intima, a volte perdendosi in elucubrazioni coltissime, perdendosi però anche il pubblico, che fatica a stare dietro a citazioni dal latino, dal greco, tedesco, inglese, e a nomi di storici ottocenteschi.
Il tema della conferenza si frantuma, si disperde, rimane la sensazione che i due emeriti professori avrebbero potuto avere più comprensione delle trecento e più persone che affollavano la bellissima Basilica di Santa Barbara.
Mantova #2
Tra i 350 eventi che ll Festivaletteratura propone
di Angela Catrani
Tra i 350 eventi che ll Festivaletteratura propone c’è anche una sezione in Piazza Sordello denominata “accenti”: in trenta minuti una performance autoriale.
Mercoledì sera era la volta di Marco Malvaldi che ha raccontato il dizionario del Borzacchini.
Ettore Borzacchini, alias Giorgio Marchetti, autore satirico livornese, collaboratore anche del Vernacoliere, è improvvisamente scomparso lo scorso anno, proprio in questi giorni.
Malvaldi con spirito e con efficace ironia ha saputo raccontare perfettamente lo straordinario Dizionario, scritto a partire da frasi ed espressioni tipiche livornesi. La satira si coniuga con la cultura, la raffinata cultura che viene gustosamente dileggiata con linguaggio arguto e volutamente sboccato.
Trenta minuti di godibilissimo divertimento.
9 settembre 2015 #1
Mi sono persa
di Angela Catrani
Mi sono persa. Mi perdo sempre nelle città, colpita dalla bellezza dei luoghi, dall’imponenza dei monumenti, dal dedalo di stradine dei centri storici. Mantova non fa eccezione: opulente, accogliente, decisamente bellissima in questa giornata di sole solcata da nuvole che si rincorrono. Sta per iniziare la diciannovesima edizione del Festivaletteratura, che vede coinvolti centinaia di autori con più di 300 eventi dislocati in ogni luogo della città: sale, piazze, chiese, teatri, cortili, giardini. Tutta intera la città è coinvolta e vive questo grosso evento come una festa.
È solo il primo giorno, ma la città è già piena di turisti, composti, ordinati, felici turisti, emozionati all’idea di vedere dal vivo (e vivo!) il proprio autore preferito.
Ma ritorniamo alla mia esitazione, al mio disorientamento emotivo e fisico. Ho bisogno di qualche ora per abituarmi alla città, per ricalibrare le mie mappe mentali. Ore preziose in cui mi aggiro persa e con un filo di ansia, ore in cui soprattutto rifletto, concentrata su me stessa, ore di stacco dalla rutinaria abitudine giornaliera.
Un festival mi attende.
Benvenuti a Mantova!