Se la Chimera diviene un aggettivo: dal mito alla metafora

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Che interesse può avere la Chimera per il disincantato popolo della modernità? L’antica creatura, si sa, è un animale bizzarro: non si sa da che parte prenderla. Di fronte non si deve (Bellerofonte insegna) perché, secondo certe versioni del mito, ha ben tre teste minacciose sputafiamme. Non meno difficile è afferrarla per la coda serpentina.
È addirittura probabile che siano pochi coloro che ricordano chi fosse Chimera, intesa come nome proprio di un leggendario mostro ibrido tra l’umano e l’animale. Per lo più, parliamo di chimere –con la minuscola– come metafore.
Nella antica leggenda, Chimera è un essere minaccioso –un po’ leone, un po’ capra, un po’ drago, un po’ donna–; è figlia di Tifone e di Echidna, che a sua volta è metà umana e metà serpente. Sua madre è sorella delle Gorgoni e i fratelli di Chimera sono Cerbero, il cane Gerione, Scilla, l’Idra di Lerna, il leone Nemeo, la Sfinge. Proprio una orribile famigliola.
In termini psicoanalitici, senza forzature, possiamo considerarla un archetipo nel senso di C.G. Jung. . . . .

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Immagine: Bellerofonte, Pegaso e la Chimera, bassorilievo in terracotta, 450 A.C., The British Museum, London

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