“Addio Biancaneve” di Beatrice Alemagna (Topipittori, 2021)

 In Presentazioni e Recensioni

 

 

In queste recensioni ci capita spesso di affrontare albi illustrati, perché è un genere erroneamente ritenuto solo per bambini; stavolta affronteremo in particolare una fiaba, genere anch’esso relegato all’infanzia, ma che ha una profondità che va oltre la capacità dei bambini di immergersi in una storia.

Addio Biancaneve di Beatrice Alemagna (Topipittori, 2021) cade in entrambe queste categorie ed è oggi di splendida attualità, perché ci dice quanto possa essere incredibile andare a rivisitare una fiaba, magari quella stessa fiaba per cui si sta preparando un “nuovo” adattamento in live-action.

Sulla prossima Biancaneve della Disney si sta vedendo un po’ di tutto, con una protagonista di origini latine, con sette nani di altezze diverse, e con un principe che non ha il merito di svegliare la principessa.

Sono beghe, notizie, cose da consumare rapidamente per creare un nuovo prodotto di consumo: per accorgercene è bene ripartire da un lavoro artistico, da un’opera d’arte: “Il testo originale di Biancaneve, dei fratelli Grimm, fu pubblicato per la prima volta in Germania, nel 1812. In quella versione non c’è traccia di nani dall’aspetto buffo o innamorati, non ci sono baci principeschi e non c’è un lieto fine, ma la morte violenta e spietata inflitta da Biancaneve alla regina, bruciata viva davanti agli invitati al matrimonio. Io mi sono chiesta quale fosse la verità contenuta nel racconto, chi la vittima e chi il carnefice, dove si trovasse il bene nell’idea originale dei Grimm.”

Così Beatrice Alemagna, illustratrice e autrice per l’infanzia, famosa e affermata, introduce il suo Addio Biancaneve, specificando poco dopo che una delle chiavi del suo lavoro è il ribaltamento: “costruire un discorso intorno ai temi della sofferenza, della gelosia e della vendetta. Prendere le parti del male per tentare di comprendere la pazzia. Raccontare la ferocia, l’oscurità, l’animalesco così come si potrebbe raccontare l’infanzia.”

La Biancaneve è per Alemagna la sua prima fiaba, una riscrittura che avviene allora anche per parlare di tutte le fiabe e del terribile che nascondono: “Penso che di questo ‘terribile’ si possa fare esperienza a qualsiasi età, con un certo grado di fascinazione e, spero, anche di piacere.”

La prima versione di Biancaneve, quella del 1812, non è così diversa dalle successive: c’è una matrigna, c’è lo specchio cui si rivolge per sapere “chi è la più bella del reame”; c’è un cacciatore che non uccide la ragazza, c’è la fuga nel bosco; c’è l’incontro con i nani, la mela avvelenata, la morte (apparente); c’è l’arrivo del principe, che però non la bacia, ma la trova così bella che la vuole portare nella sua reggia, ma durante il trasporto la salma cade e così facendo si disostruisce la gola di Biancaneve, che si libera dalla mela; c’è il matrimonio a corte, e la vittoria di Biancaneve; c’è quel finale che Alemagna prende come inizio di tutto il suo percorso creativo, con la regina condannata a ballare mentre viene bruciata viva.

 

 

Le differenze non si trovano cioè al livello della trama o dei personaggi, ma solo su alcuni snodi narrativi, che prendono coloriture simboliche decisamente diverse: queste differenze sono però fondamentali per la narrazione fiabesca, che da sempre ha una molteplicità di usi. Le fiabe non sono cioè solo “storie” o “tradizione”, ma vengono usate anche per spiegare e interpretare, per percorsi terapeutici o autoterapeutici: funzionano quasi come sogni collettivi.

Beatrice Alemagna fa dichiaratamente un uso di questo genere del testo di Biancaneve: il libro, come racconta in un’intervista [https://www.topipittori.it/it/topipittori/sulle-tracce-delle-fiabe], nasce come serie di tele: “Dipingevo per il mio bisogno di respiro e di incursione in un altrove”, racconta; e ancora: “L’immagine è nata molto prima del testo. La necessità del grande formato, dell’olio con le sue possibilità di strati e sovrapposizioni, e anche dimenticarmi del vincolo narrativo della sequenza. Le immagini si sono collegate tra loro solo casualmente, alla fine del progetto. All’inizio erano tavole separate, senza alcun collegamento apparente.”

 

Addio Biancaneve non nasce quindi come “progetto di albo illustrato”, ma come esplorazione consapevole di uno spazio, dello spazio del terribile, coerentemente con la poetica dell’artista. Ancora dalla stessa intervista: “Sono sempre stata attenta a cercare di non ridurre le mie parole, i miei soggetti e soprattutto le mie immagini alle dimensioni del bambino. Questa idea di espandere lo spazio è un’idea che mi sta molto a cuore.”

Il libro così è una sovrapposizione di scritture: c’è un testo scritto, che arriva per ultimo, e si occupa di ricucire tra loro i temi nati con le immagini, e cerca di riportare il tutto a una forma coerente e leggibile; e c’è un testo figurale, visivo, che nasce per primo ed è “terribile” e potente, fascinoso e vertiginoso. La stessa forma editoriale del libro sottolinea questa genesi, questa voglia di lasciar cadere dentro il gorgo delle immagini: è un volume di grande formato, di 96 pagine di circa 25 x 34 cm, con una rilegatura a dorso esposto che consente di aprire il volume in modo da leggere ogni immagine senza il disturbo della piega.

 

 

La storia è raccontata dal punto di vista della matrigna, che assiste alla nascita di Biancaneve: “Mi spezza il cuore. È la bambina che non avrò mai. La giovinezza che non ho più. Impazzisco.”

Il testo è dichiaratamente una narrazione “seconda”, che nasconde in palinsesto il testo originale, dandolo per conosciuto; espediente che consente ad Alemagna di soffermarsi meno sui fatti e più sul vissuto, così come racconta, sempre nelle stesse righe, la morte della regina, madre naturale di Biancaneve: “Sogno l’amore fin da piccola. Quel tipo d’amore che non ho mai avuto. Odio tutto ciò che è migliore di me. E odio quella bambina dal profondo del cuore. Fra mille nomi, hanno scelto Biancaneve. Ma, un giorno, la regina madre, improvvisamente, muore. Il re, poco dopo, si risposa. La sposa, questa volta, sono io.”

E ancora: “Finalmente io. L’amata, la bella, la potente. Io, io, io. Poi, muore anche il re.”

Mentre il racconto procede in prima persona, le immagini sono viste dall’esterno, come in una rappresentazione in terza persona: neanche lo specchio viene visto direttamente, ma riflette un’immagine in modo indiretto. Quando leggiamo, siamo dentro l’anima e la storia della regina, ma quando guardiamo, le siamo di fronte: pure, cogliamo la sua anima attraverso i segni usati da Alemagna, tratti nervosi, inquieti, con colori innaturali e prospettive sghembe.

Il segno ricorrente di questo albo è la goccia che cola, che vediamo nel lettering del titolo, dove le lettere sembrano sciogliersi o sanguinare, neve sciolta e materia che si disfa: lo stesso segno si trova nella rappresentazione dei volti e degli animali, così come delle piante e del bosco; la materia è in questo caso letteralmente quella della pittura, la sgoratura del pennello che si allunga sulla tavola.

Questo disfarsi accompagna anche gli elementi non liquidi, per primi, in tutto il libro, i capelli.

C’è qui secondo me una prima citazione diretta, ai capelli della vecchia ne Le tre età della donna di Gustav Klimt (1905, Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea di Roma). Nel famoso dipinto la chioma del personaggio centrale, la madre, scende bionda e avvolgente, mentre accanto le fanno da contrappeso i capelli grigi della vecchia, che si nasconde il volto con la mano, mentre è già nascosta dai capelli stessi.

 

 

D’altra parte, il testo lo aveva premesso: “la giovinezza che non ho più”. Il primo tema, la prima cosa terribile di cui parla Addio Biancaneve è l’invecchiamento: la regina non si guarda (per questo non vede lo specchio), e sa di stare invecchiando, e tutto intorno a lei si disfa, cola.

Come racconta nell’intervista l’autrice: “Negli addii di questa donna che piange la sua giovinezza e la sua bellezza, ci sono i tormenti di un essere perfettamente moderno che non riesce a trovare il suo posto, costretta a rispettare i diktat della società. Investendo questo testo con i miei sentimenti, mettendo in scena questo dramma, sono riuscita a concedermi il diritto di dipingere, che era in me un’esigenza profonda e antica. È un libro intriso di qualcosa che mi si scioglieva e scorreva dentro. Come le lacrime, il sudore o il sangue: colate dolorose che simboleggiano però la vita.”

Alemagna non fa riferimento diretto a Klimt, ma ad artisti e forme d’arte che frequenta spesso: “L’arte popolare siciliana, russa e scandinava; molti pittori e scultori naif (Bill Traylor, Douanier Rousseau, Robert Coutelas, Klara Kristalova, tra i primi a cui penso); pittori surrealisti e figurativi (Jeronimus Bosch, Philippe Guston, Musa McKim, Marguerite Zorach e Frida Khalo, ovviamente); la pittura infantile e autodidatta; i paper-cut (tipici di una certa arte popolare americana o dalle sagome di Hans Christian Andersen) e vari pittori e incisori tedeschi (Lothar Vends, Norbert Schwontkowski, Otto Dix) […] un simbolismo primordiale e primitivo: quello della donna e della sua incapacità di invecchiare.”

I riferimenti alla femminilità sono diretti: “delle vulve-fiori nei quadri della camera da letto dei nani, dei seni-montagna, dei lacci-serpenti”. E sono anche indiretti, riconoscibili cioè non in un oggetto preciso ma nella costruzione della tavola e quindi nella proposta di un certo sguardo.

 

La suggestione del bosco e della nudità evoca secondo me anche La colazione sull’erba di Manet (1862-63, Musée d’Orsay), con lo scandalo di una nudità non giustificata dal contesto, della donna spogliata ed esposta allo sguardo dello spettatore: nella conversazione rappresentata da Manet sfugge sempre qualcosa sulla situazione, come se la donna fosse “naturalmente” messa a nudo e quindi esposta allo sguardo e al giudizio altrui, incapace di guardarsi se non guardata.

 

 

La colazione sull’erba mi interessa anche perché è un’opera-manifesto, racconta cioè attraverso se stessa un modo di pensare l’arte, diverso rispetto ai contemporanei: e come tale è stata reinterpretata molte volte.

Particolarmente in sintonia con Addio, Biancaneve è per esempio il modo in cui Picasso ridisegna lo stesso dipinto (Le Déjeuner sur l’herbe d’après Manet, 1960, parte di una serie, Musée Picasso, Paris), usando (come Manet) solo macchie di colore che si sovrappongono. Qui la figura nuda si scompone – non però moltiplicandosi allo sguardo come è proprio del periodo cubista di Picasso (come per esempio ne Les demoiselles d’Avignon), ma disfacendosi: la bagnante in secondo piano sta letteralmente colando nell’acqua.

 

Picassiano è anche in Addio Biancaneve il cavallo con cui arriva il principe, anche se non in modo didascalico: Alemagna non riprende un singolo elemento ma un modo di costruire lo sguardo, in cui c’è tutto il primo Novecento, da Munch a Dix, da Grosz a Kirchner, da Picasso a Nolde, in cui vengono raffigurate maschere e disfacimento.

 

 

 

Alemagna non lo dice con le parole ma con le immagini: parlando di una regina in crisi per la sua giovinezza perduta, parla di una società, di un pianeta che sta soffrendo; la natura, onnipresente nelle tavole, soffre con la protagonista, come Biancaneve raccontasse anche un epilogo di una storia di sfruttamento e sopraffazione, in cui la paura è violenza sottesa. Etimologicamente l’invidia (quella che muove la regina-matrigna) è l’incapacità di vedere (in-video), come ricorda una famosa rappresentazione di Giotto (1306 circa, Cappella degli Scrovegni, Padova) in cui dalla bocca di un’anziana signora esce un serpente che arriva ad accecarla.

 

 

Gli sguardi che raccontano il mondo sovrappongono le visioni “bambine” dei pittori naif, i cut-up, i volti dei nani, a una visione decadente, in un contrasto che si rinforza dentro ogni pagina. L’ultima immagine del libro sono due occhi vuoti, circondati di ciglia, che sono anche fiori, e che ricordano le vulve incorniciate nella casa dei sette nani.

 

 

La danza finale della regina morente è terribile, ma contiene una possibilità, una rigenerazione: la vulva non più come segno estremo della nudità esposta, della necessità di essere creata dallo sguardo altrui, ma come organo generativo, come centro del diventare.

Così arrivano le parole che chiudono l’albo, dette da una regina che nella storia è già morta: “Ridiventare tutto: terra, soffio, nuvola, sasso. Ridiventare nulla.”

Lì, c’è un’uscita possibile: non nel contrasto con Biancaneve, non nello scontro tra personaggi; ma nella possibilità di andare altrove, fuori dal contrasto, tornando a creare il mondo, fuori dalla corte dei personaggi.

Le fiabe sono così: come sogni collettivi, non ci indicano chi vince e chi perde. Ci dicono cosa muore e cosa vive, e ci suggeriscono come stare dalla parte di ciò che vive. Perché così si guarisce.

 

Didascalie Immagini:

01 Beatrice Alemagna, Addio, Biancaneve, Topipittori, 2021

02 Idem, La matrigna

03 Idem, I sette nani

04 Idem, Biancaneve nella foresta

05 Gustav Klimt, Le tre età della donna

06 Alemagna, id., La stanza dei sette nani

07 Édouard Manet, La colazione sull’erba

08 Pablo Picasso, Le Déjeuner sur l’herbe d’après Manet

09 Emil Nolde, Natura morta con maschere

10 George Grosz, Il sopravvissuto

11 Giotto, L’invidia

12 Alemagna, id., Pagina finale

 

Beniamino Sidoti lavora da oltre trenta anni agli incroci tra gioco e narrazione: è autore tradotto in venti lingue, consulente, studioso e organizzatore. È tra i fondatori della manifestazione LuccaGames, il più importante festival ludico europeo. Tra i suoi libri il Dizionario dei giochi (con Andrea Angiolino, Zanichelli, 2010; ora Unicopli, 2022), Strategie per contrastare l’odio (Feltrinelli, 2019) e Stati d’animo (Rrose Sélavy, 2017).

Post recenti