Le zattere di Ulisse. Dieci psicoanalisti interpretano i luoghi, le donne, i miti dell’Odissea
OLTRE ULISSE
Introduzione a Le zattere di Ulisse
Esce ad ottobre, per i tipi della casa editrice Poiesis, l’ultimo libro dello psicoanalista Anthony Molino, collaboratore storico di ARACNE e responsabile della rubrica “Raccordi”. Intitolato Le zattere di Ulisse. Dieci psicoanalisti interpretano i luoghi, le donne, i miti dell’Odissea, il libro è nato sulla scia della conversazione tra lo stesso Molino e i colleghi Paola Borsari e Luca Caldironi, dal titolo “Ulisse e il nostro tempo. Ipotesi psicoanalitiche”, pubblicata due anni fa, in piena pandemia, proprio nella rubrica Raccordi (n.19). Corredato dalle fotografie suggestive del Maestro Giorgio Cutini, il libro si avvale della collaborazione e dei contributi dei seguenti autori: gli stessi Borsari e Caldironi, Sara Boffito, Giulia Zelda De Vidovich, Carmelo Conforto, Alda Marini, Cristian Muscelli, Silva Oliva e Luca Trabucco. Diamo anticipazione del volume con la pubblicazione in anteprima dell’introduzione di Molino (foto copertina: G. Cutini).
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Come tanti ragazzi della mia generazione, sono cresciuto con la RAI degli anni d’oro, quando la televisione aveva, oltreché funzione di intrattenimento, anche quella di un vero servizio pubblico, volta alla realizzazione di progetti dalla forte valenza culturale. Uno di questi era la versione televisiva dell’Odissea, trasmessa nel 1968, con le interpretazioni indimenticabili di Bekim Fehmiu nei panni di Ulisse e di Irene Papas nel ruolo di Penelope. Chi non ricorda le coinvolgenti scene dell’accecamento di Polifemo, o dell’approdo ad Itaca, per citarne solo due a me rimaste impresse? Fu anche la prima trasmissione a colori della nostra televisione, e servì a corredare, in un certo senso, a vivificare, le letture del poema omerico che, assieme a quelle dell’Iliade, erano in quegli anni centrali al programma scolastico di seconda e terza media.
Faccio un salto in avanti, di dieci anni, forse meno. Avevo finito per terminare le superiori negli Stati Uniti, dove ero tornato dopo un fallimentare rimpatrio della mia famiglia in Italia alla fine del decennio precedente. Una volta diplomato mi ero iscritto all’università di Temple, nella mia natìa Filadelfia, per laurearmi in lettere italiane. Era lì che potei finalmente leggere la Divina Commedia e, in un successivo seminario dedicato alla traduzione letteraria, proposi – ventenne ambizioso e, a ripensarci, non poco presuntuoso – di tradurre in inglese alcuni canti del capolavoro dantesco. Volevo replicare nell’esercizio sia la costante dell’endecasillabo che la costrizione della terza rima, compito che alcuni traduttori celeberrimi della Commedia avevano finito per tralasciare. Al di là, però, del grado di riuscita delle mie traduzioni ricordo benissimo che il primo canto con cui mi cimentai fu il XXVI° dell’Inferno. Ero appassionato, consumato nel mio sforzo letterario proprio come “lo maggior corno de la fiamma antica”; e con ogni probabilità serbavo ancora, nello svolgimento delle mie versioni, ricordi non del tutto sbiaditi delle immagini dello sceneggiato televisivo. La fierezza e il coraggio indomito di colui che a nulla si piegava pur di onorare “l’ardore a divenir del mondo esperto/e di li vizi umani e del valore” avevano colpito lo studente ventenne, e sicuramente risuonavano con certi miei moti post-adolescenziali, di giovane uomo che, sballottato dalla propria storia transgenerazionale di emigrati mai pacificati si sentiva, già a quell’età, senza patria; e che aveva già intuito che ogni Itaca era, forse, molto più che un approdo definitivo. Semmai, poteva essere sempre una tappa per il prossimo “folle volo”…
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Rivisito questi momenti della mia storia non per indulgere oltre nei suoi episodi (e tediare oltremodo i pazienti lettori), ma per dare il senso di come, dopo oltre mezzo secolo, quello sceneggiato RAI, quelle letture giovanili, quelle prime traduzioni di chi finì pure per diventare traduttore letterario, si sono cristallizzati in questo progetto che ora ho il piacere di dare alle stampe. La genesi del libro è presto detta. Per gran parte del primo annus horribilis del COVID-19, i Musei San Domenico di Forlì hanno ospitato una mostra dal titolo Ulisse. L’arte e il mito, che per la sua rilevanza è stata insignita, nel 2021 a New York, del premio della settima edizione del Global Fine Art Awards, superando allestimenti promossi da prestigiose istituzioni quali il British Museum di Londra, il Getty di Los Angeles, il Metropolitan di New York e il Louvre di Abu Dhabi. Come riporta la nota curatoriale sul sito dei Musei, “il protagonista dell’Odissea è il più antico e il più moderno personaggio della letteratura occidentale. Egli getta un’ombra lunga sull’immaginario dell’uomo, in ogni tempo… Raccontare di Ulisse ha significato raccontare di sé, da ogni riva del tempo e raccontarlo utilizzando i propri alfabeti simbolici, la propria forma artistica, attribuendogli il significato del momento storico e del proprio sistema di valori.” Dopo una visita alla mostra della collega Paola Borsari, che l’aveva lasciata entusiasta, ho colto subito il suo felice invito di ripensare assieme la figura di Ulisse. E ho voluto invitare, di riflesso, in un primo momento, la stessa Borsari e l’amico e collega Luca Caldironi a riflettere, utilizzando l’alfabeto simbolico della psicoanalisi, sui significati odierni e la vitale attualità del mito omerico, vertice autentico e senza tempo per l’esplorazione dell’odissea che ogni vita umana snoda; e di ogni smarrimento e approdo di conoscenza che il lettino a sua volta accoglie, e narra. Questo primo momento si è concluso e concretizzato con la pubblicazione sulla rivista online di arte e psicoanalisi Aracne, nell’autunno del 2021, di una nostra conversazione a tre voci dal titolo “Ulisse e il nostro tempo: Ipotesi psicoanalitiche”. La conversazione è qui riprodotta, e serve da preambolo e apripista ai contributi che di seguito illustro, e che si dividono in due sezioni.
La prima sezione del libro è composta da tre saggi, scritti tutti da colleghi maschi, che esplorano a diverso titolo e da diversi vertici psicoanalitici la straordinaria e irriducibile figura di Ulisse, dandone letture ricchissime e singolari. Apre le danze Carmelo Conforto, che ne La ballata del vecchio psicoanalista invoca Bion, Coleridge e la sua stessa esperienza di marinaio-naufrago. Prendendo spunto dalle parole di Coleridge – “Solo, solo, tutto solo, solo in un immenso mare…” – Conforto scrive della solitudine dell’analista, di cui Bion è cantore (quando scrive della personalità distaccata dalla gruppalità di base); e alla luce di ciò rileva il percorso che anche Ulisse costruisce, così come è costruita nell’uomo, attraverso la funzione analitica, la tolleranza alla solitudine.
Odisseo, o della tolleranza è il titolo del secondo capitolo, scritto da Luca Trabucco. Prendendo le mosse da uno dei significati del nome Odisseus, ovvero “colui odiato dai nemici”, il saggio esplora la figura di Ulisse nell’antinomia paradossale tra alcuni tratti idiomatici incarnati dalla figura dell’eroe: ovvero, tra la curiosità e il desiderio di conoscenza contrapposti alla propria maestria nell’inganno e alla superiorità attribuita della menzogna. Il conflitto tra questi due aspetti, per Trabucco, si propone come antinomia fondamentale nel rapporto dell’uomo con la realtà, sia interna che esterna. Il permanere in questo paradosso, assunto dall’autore come condizione dell’esistenza, fa sì che la figura di Ulisse coincida nella sua visione con quella di Sisifo. Da qui segue una affascinante digressione dell’autore su Camus, per concludere con un altro paradosso: quello insito nella tensione tra la filosofia esistenzialista e la visione psicoanalitica dell’esistenza.
Il terzo capitolo, Molte astuzie e un desiderio. Note psicoanalitiche sulle figure di Ulisse, è di Cristian Muscelli. Scrive al riguardo il collega di formazione lacaniana, offrendo una lucida e esauriente sintesi del proprio contributo: “Le figure del desiderio che si ricavano dalle interpretazioni dell’Ulisse omerico permettono tre considerazioni: la prima intorno alla sua struttura edipica; la seconda sulla necessità di confrontarsi con la legge e il destino; la terza sulla questione della libertà di scelta e la possibilità che il desiderio diventi distruttivo. Contro ogni facile riduzione del desiderio alla retorica della felicità, procurata dal coraggio e da guadagnare attraverso l’avventura, Ulisse ne indica piuttosto le ambigue potenzialità e gli equivoci. Forse l’attualità di Ulisse, origine e rappresentante ideale dell’uomo moderno, è proprio in questo, nel confronto con le difficoltà poste dal desiderio.”
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La seconda parte del libro, dedicata alla variegata costellazione dell’universo femminile nell’Odissea, è composta da tre contributi tutti scritti da colleghe. Non era certo nelle intenzioni del curatore una divisione così schematica, figuriamoci se così apparentemente “sessista”, nella propria concezione del libro. I colleghi tutti, una volta interpellati, hanno proposto e scritto in tutta autonomia di temi e personaggi a loro cari, emblematici nelle loro capacità di condensare e disvelare significati e letture del poema omerico e dei suoi miti. E così gli uomini hanno scritto prevalentemente di Ulisse (e in minor misura, di Telemaco); le donne di Penelope, Circe et al. Detto ciò, e in tale ottica, particolarmente ricca è il primo saggio dei tre che si articolano al femminile. Donne dell’Odissea: Illusioni e loro destini di Sara Boffito e Giulia Zelda De Vidovich, che apre questa sezione del volume, è un piccolo gioiello che immagino come un nucleo per un saggio di più ampio respiro se non addirittura per un libro. È una specie di compendio, di appunti per una lettura se non al femminile perlomeno diversa dell’Odissea, composta com’è da una serie di fugaci vignette che invitano a ripensare tanti luoghi comuni attorno al poema e alle sue figure. Notevoli sono le fonti a cui ricorrono le autrici per declinare la loro lettura di figure quali Atena, Calipso e Nausicaa: da Grotstein alla poetessa premio Nobel Wislawa Szymborska; da Bion a Kafka; da Winnicott a Fachinelli passando persino per alcuni traduttori di versioni anglofone dell’Odissea!
Il secondo saggio, della junghiana Alda Marini, si intitola Penelope, o della radice. Inizialmente, Alda voleva chiamarlo “Per ogni Ulisse che insegue il suo destino è necessaria una Penelope che lo ancori al suo terreno.” Cito questo per una semplice ragione: non ho difficoltà ad immaginare le accuse di politicamente scorretto che potrà attirarsi Alda – e di riflesso il sottoscritto – per un saggio che personalmente trovo coraggioso nella sua proposizione di una lettura della figura di Penelope che non vuole essere reazionaria ma, fedele a certa tradizione junghiana, archetipica. Ne scrive a proposito la Marini, in una nota preliminare alla stesura del saggio: “Come Jung ci invita a riflettere, una pianta deve poter crescere nel terreno che gli è proprio, lì maturare e trovare un proprio posto, una propria fioritura, prima di avventurarsi altrove. E proprio di questo Ulisse ha bisogno, di una terra ferma che continui a convalidarne l’identità raggiunta, intanto che va sbocciando una nuova. Parole come fedeltà, costanza, memoria, solidità costellano la relazione matrimoniale che lo lega a Penelope, sua sposa ‘dimenticata’. In realtà ogni passaggio verso l’ignoto è reso possibile dalla rinnovata promessa che Penelope fa al suo sposo, ogni rifiuto di un nuovo matrimonio restituisce a lui il suo regno e gli rende possibile continuare il suo processo individuativo.”
La seconda sezione si conclude con una lungo saggio di Silva Oliva, che si misura con le “maliarde” dell’Odissea, principalmente con le figure di Circe e le Sirene. Partendo da una famosa canzone popolare del 1919 intitolata Vipera, l’autrice indaga – coadiuvata da letture che spaziano da Freud, Winnicott e Bion per arrivare a Michel Serres e Maria Corti – diverse linee “matrici” della relazionalità: dall’atavica attrazione della femme fatale che si vuole incarnata, appunto, da Circe, ad aspetti della relazione madre-bambino. La portata straordinaria del saggio è la capacità di estendere queste considerazioni per arrivare ad una lettura della nostra contemporaneità, per cui la “brama di conoscenza” da sempre attribuita ad Ulisse (e metaforizzata, tra l’altro, dal suo incontro con le sirene) si snoda in riflessioni pacate ma intense, su fenomeni attualissimi quali l’intelligenza artificiale e le neurotecnologie. E ci riesce, per di più – tra lo stupore di questo lettore – immaginando e confidando in esiti tutt’altro che distopici.
Chiude il libro, infine, una postfazione dell’amico Luca Caldironi, che dopo la nostra iniziale conversazione con Paola Borsari fu colui che mi istigò ad andare oltre, nel “folle volo” che è stata la concezione e realizzazione di questo libro. Luca, come e più di me, è da anni coinvolto in una duplice ricerca che vuole abbinare – anche nelle sue concretizzazioni – l’arte alla psicoanalisi. (Vedi la sua creazione a Venezia, e la sempre innovativa programmazione, dello spazio espositivo Castello 925, che Luca dirige.) E questi temi a lui cari costituiscono il fulcro del suo saggio, che vuole, infatti, “navigare a vista” nella sempre attuale rilevanza del mito per “l’alto mare aperto” della psicoanalisi.
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Come il lettore avrà già percepito da queste poche note sommarie, sono diversi gli psicoanalisti il cui lavoro è stato preso in prestito al fine di promuovere letture attuali di Odisseo e delle altre figure omeriche che attorno a lui gravitano da sempre. Freud, Bion, Winnicott, Jung, Lacan sono stati tutti citati; altre, come Kristeva, Melanie Klein, e Chasseguet-Smirgel risulteranno indispensabili alle ricerche qui promosse. Uno però, con mia grande sorpresa, manca all’appello. É, a mio avviso, uno il cui lavoro molto si addice per declinare la grande modernità dell’eroe omerico, a cui Dante fa pronunciare alcuni tra i versi più famosi della sua Commedia: “fatti non foste e viver come bruti/ma per seguir virtute e canoscenza”.
Nel 1989 Christopher Bollas pubblicò un libro intitolato Forces of Destiny: Psychoanalysis and Human Idiom. (Sottolineo l’omissione del sottotitolo – “Psicoanalisi e idioma umano” – dalla versione italiana. Forze del destino è stata pubblicata prima da Borla nel 1992 e anni dopo da Raffaello Cortina.) In una pagina che precede l’indice l’autore esamina l’etimologia di tre parole, tra cui il greco idioma, che definisce “una peculiarità, una specifica proprietà, un tratto unico”. Segue la definizione della forma verbale idiòmai: rendere proprio, appropriarsi. Bollas postula poi la tesi del libro: “l’umano idioma è quella peculiarità della persona, o della personalità, che trova il proprio essere attraverso la particolare selezione e uso dell’oggetto. In questo senso ristretto, essere e appropriare sono la stessa cosa.” È alla luce di questa tesi che vorrei ripensare l’attualità di Ulisse.
Vorrei partire da quello che per me è il capitolo centrale del libro di Bollas, intitolato “The destiny drive”. Quell’Ulisse definito dai curatori della mostra di Forlì come “il più antico e più moderno personaggio della letteratura occidentale” deve, credo, il suo odierno appeal in gran parte al fatto che rompe con un universo classico governato dal fato, aprendo alla dimensione del destino, a quella che Bollas chiama pulsione destinale. Pensiamo ad Edipo, la cui storia è tutta incentrata attorno alla profezia di Tiresia che lo vorrà patricida e marito della propria madre. Per quanto il figlio di Laio e Giocasta cerchi di fuggire ai dettami del fato, la tragedia ovunque incombe, e non tarderà a consumarsi. Pensiamo, nei loro esiti, anche alle storie di Prometeo e Sisifo i cui atti – pur intesi a trasgredire un ordine prestabilito, nobilitando entrambi – li condannano a sentenze che hanno nella ripetizione, nella loro eterna ineluttabilità, il marchio del fato. Miti che, seppur da secoli tramandati, spesso si riducono e si consumano nel racconto dell’atto trasgressivo e della relativa condanna, a discapito di una qualsiasi storia articolata e narrata della vita dei personaggi. In un universo, invece, pur sempre abitato da forze e divinità che si schierano contro o a favore del condottiero che, nella visione dantesca, invita i suoi prodi a “non negarsi l’esperienza”, Ulisse si manifesta come simbolo di una nuova concezione dell’uomo, preludio dell’individuo moderno. Di uomo aperto al futuro, alla sfida, anche all’errore; alla propria fallibilità come alla propria debolezza, di cui pure si narra di una profezia che gli sigillò una vita errabonda per venti anni dopo la caduta di Troia. Ma nell’arco di quel ventennio l’eroe è, come sappiamo, anche agente del proprio futuro, che a suo modo “scrive” e non subisce come qualcosa già scritto.
Leggiamo Bollas (la traduzione dall’originale inglese è mia):
“Una persona che si sente fatata immaginerà futuri carichi del peso della disperazione. Invece di percepire l’energia di una pulsione destinale e di ‘possedere’ futuri che la nutrono nel presente e possono servire per esplorare percorsi di viaggi potenziali (attraverso l’uso dell’oggetto), la persona fatata non fa altro che proiettare un certo assetto oracolare. Uno sguardo sul futuro finisce per essere una visione del fato, che echeggia la voce della madre, o del padre, o dei contesti socio-culturali che opprimono il sé… Possiamo parlare della rimozione delle possibilità di futuro nello stesso modo in cui parliamo della rimozione dei ricordi.”
E ancora:
“La pulsione destinale sfrutta (invece) le proiezioni inconsce negli oggetti dell’idioma potenziale, che vengono organizzate dal bambino e predisposte per le capacità esperienziali del vero sé…. (U)no dei compiti di un’analisi, quindi, è quello di facilitare all’analizzando il contatto con il proprio destino, che vuol dire la progressiva articolazione del vero sé attraverso una molteplicità di oggetti. Il processo analitico, di conseguenza, diventa una procedura per la istituzione e elaborazione dell’idioma del paziente, e non una mera opera di decostruzione…”
Infine:
“Nella classicità, un senso del destino veniva riferito a quelle parti del sé che non sono state scisse e davano alla persona un senso di essere ben orientato nella vita. L’eredità genetica, la biologia, e l’ambiente, quindi, sono tutti fattori che contribuiscono al destino di una persona… Dal punto di vista della salute, il vero sé istituisce il proprio idioma e la tessitura di una vita è il lavoro della pulsione destinale, nella misura in cui la nostra spinta ad elaborare questo idioma ha come risultato la creazione di effetti personali.” (corsivo mio)
Ai fini di questa introduzione, riprendo pochi episodi dell’Odissea, noti ai più, per evidenziare il particolare uso dell’oggetto di Ulisse e come questo sia riferibile all’espressione, sistematica e creativa, del suo particolare idioma. Pensiamo l’eroe nella grotta di Polifemo, dopo l’accecamento del Ciclope. L’ambiente, parco di occasioni di fuga, è abitato dal gregge del figlio di Poseidone. Ulisse comanda ai suoi compagni di attaccarsi al ventre delle pecore sbrigliate dalla furia del gigante, per così uscire dall’antro e sfuggire alla sua ira disperata. Nello stesso episodio, va sottolineato da parte di Ulisse l’uso del vino, avuto in regalo dal sacerdote trace Marone, per stordire Polifemo e porre fine al massacro dei compagni.
Altro episodio paradigmatico è quello dell’incontro con le Sirene, di cui Silva Oliva scrive abbondantemente nell’ultimo capitolo del volume. Consapevole del rischio a cui va incontro, ma pronto sempre a “vincer… dentro a me l’ardore ch’ì ebbi a divenire del mondo esperto”, Ulisse si fa legare all’albero maestro della sua nave, tappando con la cera le orecchie dei suoi compagni che così protegge dall’insidia mortale. Anche qui, come nell’esempio della grotta di Polifemo, Ulisse si appropria di quanto l’ambiente offre, usa l’oggetto a disposizione, al fine di esprimere appieno quell’idioma che, agli occhi nostri e dei secoli andati, lo ha visto definire in tanti modi: astuto, menzognero, ardito, geniale, puer… Ciò che a me preme, però, con questi pochi esempi (e la lista potrebbe continuare…), al di là dei giudizi accumulati nel tempo, è guardare ad Ulisse con gli occhi di chi, sensibile agli insegnamenti del gruppo indipendente degli psicoanalisti britannici, a partire da Donald Winnicott, lo vede come esempio emblematico di chi articola fedelmente il proprio idioma, e così facendo contribuisce a modellare il proprio destino.
Cito ancora Bollas, da una conversazione pubblicata nel mio libro Liberamente Associati:
“Che ci piaccia o no, se non riusciamo a essere spietati nel senso primario, istintuale, nel senso del bisogno del neonato di alimentarsi, se non riusciamo a seguire quella pulsione originaria… non credo che esisterà mai un vero Sé, o l’uso oggettuale. Gran parte del conflitto psichico riguarda in effetti varie forma di antipatia verso necessità, pulsioni e così via. Ma per quanto riguarda la spietatezza, l’affronto sempre in termini puramente psicologici, mai morali.”
Il riferimento, ovviamente, è proprio a Winnicott, da cui ereditiamo tutti la nozione dell’uso dell’oggetto, assieme a quella sua felice idea di ruthless love che purtroppo l’italiano – col termine spietato – ha sempre faticato a rendere appieno, colorando il concetto ulteriormente di fuorvianti accezioni moralistiche. In ogni caso, non credo sia necessario, tanto meno nello spazio limitato di una introduzione, stare qui a “mappare” ulteriori momenti e movimenti dell’Odissea utili a “leggere” la figura di Ulisse in questa chiave bollasiana. (Molti degli avvenimenti e personaggi centrali al poema, assieme ovviamente alla complessità della figura di Odisseo, verranno comunque rivisitati nelle pagine del libro.) Ma rivisitare un terzo elemento, un terzo episodio che sottolinea e rafforza ulteriormente, credo, questa mia tesi, è d’obbligo. Mi riferisco a quanto succede dopo l’incontro di Ulisse con Nausicaa sull’isola dei Feaci.
Trovato nudo e sconfitto sulla spiaggia dopo il naufragio che lo spoglia persino dell’ultimo compagno, soccorso e vestito dalla coraggiosa vergine che in pochi versi sembra passare dall’adolescenza alla piena maturità di donna (si veda in questo libro il capitolo di Sara Boffito e Giulia De Vidovich), Ulisse finisce per essere condotto alla corte del padre di Nausicaa, il re Alcinoo. E qui succede qualcosa di incredibilmente moderno: Ulisse si racconta, e narra la propria storia lunga oltre vent’anni, al fine di diventare chi è. A parte lo straordinario artifizio letterario per cui la voce narrante di Ulisse si confonde, da qui in avanti, con quella di Omero nella rievocazione delle avventure e delle tribolazioni dell’architetto del cavallo di Troia, mi preme far notare l’uso che l’eroe fa della situazione, dell’ambiente in cui viene a trovarsi, al fine di indulgere in ciò che Bollas, più volte nella sua opera, chiama il piacere dell’analizzando di narrarsi. Del piacere, puro e semplice, di parlare, e così facendo di operare la ri-costruzione, e ri-significazione, della propria storia. Ulisse difatti usa il proprio uditorio al fine di creare un’arena per il dispiegamento del racconto di una vita dove si configura, in un certo senso, un teatro non molto dissimile da quello analitico. Dove il destino che è al centro dell’Odissea si snocciola e si trascrive in un mirabolante après-coup, facendo, in un certo senso, di Ulisse – come già sostenevo in apertura – il prototipo di ogni paziente psicoanalitico.
Non mi dilungo. Dico solo, per chiudere questa mia nota, che la straordinaria modernità di Odisseo è tale – come dimostrano gli otto capitoli che compongono questo volume – che fornisce alla psicoanalisi, in quasi tutte le sue declinazioni, una capacità generativa di “effetti personali” che mi auguro possano servire ad arricchire il nostro patrimonio comune. Questo, a discapito delle tante e miopi tendenze divisive che ancora oggi affliggono la nostra professione. Professione, già di suo, impossibile, alla cui pulsione destinale questo libro si augura di contribuire.
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A conclusione di questo lungo viaggio vorrei spendere alcune parole per il titolo del libro. Le zattere di Ulisse, titolo proposto dal mio editore e da me prontamente accolto, racchiude felicemente in sé le diverse anime, e le diverse ambizioni, dei colleghi che mi hanno assistito nella composizione del volume. È una immagine, quella della zattera, decisamente polisemica, che evoca e enuclea temi quali il viaggio, il naufragio, l’esilio, la precarietà e la solitudine. E sicuramente altri ancora. Tutti temi centrali dell’Odissea rivisitati, in modo solo apparentemente centrifugo, in ciascuno dei capitoli che compongono il libro, accennati da subito nella conversazione a tre tra Paola Borsari, Luca Caldironi e il sottoscritto per trovare un approdo – una sintesi inattesa – nella postfazione di Luca. Sono zattere, le nostre letture, che muovendosi tra i miti e i luoghi dell’Odissea, riescono comunque a raggiungere un’Itaca che è il libro stesso, espressione polifonica di un variegato mondo psicoanalitico che in questo progetto ha trovato, come Ulisse che ritrova i suoi cari, una quiete condivisa seppur, forse, soltanto momentanea.
Immagini:
René Magritte, Invention collectif (1934), Kunstsammlung, Dusseldorf.
Pinturicchio (1508 – 1510), Penelope e i Proci – affresco trasportato su tela, conservato alla National Gallery di Londra.
Giorgio Cutini, “Colloquio sulla vitalità dell’arte” (1984).
Anthony Molino è psicoanalista di formazione anglo-americana e pluri-premiato traduttore di letteratura italiana in inglese. Da oltre 25 anni vive e lavora in Italia, tra l’Abruzzo e le Marche. Tra i suoi libri ricordiamo: Liberamente Associati (Astrolabio, 1999); Psicoanalisi e buddismo (R. Cortina, 2001); La vitalità degli oggetti (con J. Scalia e L. Baglioni, Borla, 2007); Tra sogni del Budda e risvegli di Freud (con R. Carnevali e A. Giannandrea, Arpanet, 2010); e Soggetti al bivio (Mimesis, 2012). Come traduttore ha reso in inglese, tra gli altri, i poeti Valerio Magrelli, Lucio Mariani, Mariangela Gualtieri e Antonio Porta, nonché commedie di Manlio Santanelli e Eduardo De Filippo, di cui ha tradotto il celeberrimo Natale in casa Cupiello. Nel 2018 la sua traduzione de Il diario di Kaspar Hauser di Paolo Febbraro è stato premiato quale migliore traduzione di un libro di poesia italiana in inglese per il biennio 2016-‘17 dalla Academy of American Poets, la più prestigiosa istituzione letteraria americana. Da sempre attento alle intersezioni tra psicoanalisi e altre discipline, collabora con la rivista online di arte e psicoanalisi Aracne e con l’americana Journal of Italian Translation. Collezionista nonché curatore ha pubblicato, per i tipi delle Edizioni Mondo Nuovo, il libro Oltre la tela. Conversazioni sulla pittura (2020), mentre per Rubbettino ha curato il libro-intervista sulla vita dell’artista Paola Masi intitolato A modo mio, che verrà presentato ad ArtVerona di quest’anno. Di prossima pubblicazione è il volume Egl’io. Uomo, albero (Mondo Nuovo, 2024), sulla fotografia di Giorgio Cutini.