Alcuni rilievi sul rapporto tra fotografia e morte

 In La camera ibrida, Tematiche

 

Non ci sono dubbi che l’origine del ritratto vada cercata anche e soprattutto nell’arte funeraria, dove troviamo spesso l’immagine del defunto rappresentato da vivo. È il caso dei bellissimi ritratti del Fayyum nell’Egitto romano (I sec. a.C.-IV sec. d.C.). Si tratta, come ricorda Bailly, di una sorta di “apostrofe muta”, in cui i morti si affacciano come vivi dai loro sarcofagi, quasi in una incantata e laica negazione della morte. Una tipologia che, attraverso i secoli e con modalità e intenti diversi, è arrivata fino ai giorni nostri, in cui ogni tomba, ogni lapide mostra, più o meno sorridente, la foto del caro estinto – piccolo e privato monumento alla memoria.

Sono molti tuttavia gli elementi che riallacciano direttamente il tema della morte alla fotografia. È stato forse Roland Barthes, nel suo brillante saggio del 1980, La camera chiara, che più di ogni altro ha sottolineato questo motivo, parlando, per esempio, di quella «cosa vagamente spaventosa che c’è in ogni fotografia: il ritorno del morto». E pensando al grande impegno profuso da ogni fotografo professionista per conferire ai suoi modelli un’impressione di naturalezza e appunto di vita, Barthes osserva poi con ironia . . . .

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