Aracne
Sono una umile figlia del popolo.
Mio padre, brav’uomo, tingeva la lana. Lavoro terribile, che mina il fisico e la mente. Le mani sempre immerse nell’acqua color porpora, a respirarne i fumi e gli odori.
Mia madre morì presto, forse di parto. Oh non si guarda troppo per il sottile qui da noi, un figlio all’anno e quando muore una moglie presto se ne riprende un’altra, una donna in una casa è necessaria.
Io ero diversa. Diversa diversa diversa!
Oh, io non avrei fatto un figlio all’anno, non mi sarei ammazzata di fatica, sempre con la pancia ingrossata e la schiena curva, di questo ero certa fin da piccolissima, quando la mia mamma per prima mi mise davanti al telaio: non lo raggiungevo se non su un alto sgabello, ma subito mi affascinò l’intreccio dei fili colorati e l’idea che vi si potesse disegnare qualsiasi cosa.
Assecondarono questa mia fissazione. Che altro potevano fare, d’altronde? I filati non mancavano certo, di figlie a servire in casa eravamo abbastanza. E così tessevo tutto il giorno, osservavo il mondo e lo traducevo in tela. Il giallo dei campi rigogliosi di spighe al vento, il rosso dei papaveri ondeggianti e timorosi, il blu del cielo terso e limpido, il verde dei prati dopo un acquazzone. E le figure umane, le più difficili, perché devi riportare sulla tela non solo il colore dell’incarnato, quel rosa semitrasparente dalle mille sfumature, ma anche l’espressione del viso, e il carattere, i pensieri, le idee, le emozioni.
Facevo e disfacevo, preda di una infuriata passione per la perfezione.
Gli anni passavano, le donne del popolo venivano a vedere le mie tele, meravigliavano e compravano, e ne parlavano con le amiche, le padrone.
La voce si sparse: diventavo famosa, così nota in tutta la Lidia, da ricevere commesse da Efeso, da Smirne, da Sardi.
Se mi montai la testa?
Ma si, che diamine! Ero considerata la migliore, venivo ricevuta dalla nobiltà di Colofone, ero famosa, osannata, idolatrata. Assistevano al mio lavorare giornaliero come a teatro, intervallando di esclamazioni raramente contenute il mio sferruzzare, il mio tessere.
Dicevano che la mia arte veniva dalla dea Pallade Atena.
La mia arte era perizia e capacità, e tantissima pratica, e passione infinita.
Non dalla dea Pallade Atena.
Divenni sfrontata: non sopportavo l’idea che le mie fatiche dovessero derivare da qualcosa all’infuori di me, che dovessi ringraziare una dea per le mie capacità, per la mia creatività, che avevo esercitato fin da piccola, con determinazione e tantissima applicazione.
Che venisse, dunque, questa dea, che si manifestasse dunque!
E venne.
Un giorno, funesto, si presentò una vecchia, ad ammirare la mia arte, a fare le voci, come le altre, un coro di “oh, ah, uh” che accompagnavano come un canto rituale il mio lavoro quotidiano.
E mi provocò, con infinita astuzia. Oh, ero sicuramente la più brava fra i mortali, lei era vecchia, aveva girato dappertutto, di questo era certa. Ma come potevo gareggiare con una dea? Questa idea era temeraria, dovevo chiedere perdono alla dea Atena.
Nella mia lucida follia oramai ero andata troppo in là. Le sue parole mi infiammarono: nessuno era superiore a me, io sola ero la più brava, la più capace, che venisse pure a sfidarmi, non avevo paura.
E venne.
La vecchia rilucette di luce e nell’abbaglio si trasformò: le vesti d’oro, i neri capelli lucenti, l’elmo e i calzari, altissima, fiera e infuriata. Era la dea Pallade Atena, bellissima e terrificante nel suo furore.
Era troppo tardi per tirarmi indietro: una folla assisteva al nostro duello.
Ci mettemmo ai telai: una di fronte all’altra. Io piccola insignificante mortale, le spalle curve, lo sguardo fiero e orgoglioso (ma un debole rossore di fuoco mi colse, inaspettato: mi trovavo pur sempre di fronte a un dio!). Lei magnifica, altera, incombente, seducente, sguardo infuocato, mento volitivo e un’energia eterna.
Lavorammo, e lavorammo e ancora e ancora, fino alla fine.
Oh, che capolavoro il mio: vi avevo messo tutta me stessa, la mia perizia tecnica e la mia fantasia, scegliendo i colori più adatti, le sfumature migliori. Rappresentai le donne ingannate dagli dei: Europa rapita da Zeus sotto forma di toro, Leda ghermita dal cigno, pioggia d’oro che bagna Danae, lembo di fuoco che accarezza Egina, il sinuoso serpente che avvolge Prosperpina. E ancora Nettuno e Apollo e Dioniso e Saturno. Dei stupratori, ingannatori, infidi.
Oh, non era meno del suo che aveva raccontato l’Olimpo, in cui ogni dio maestoso e grandioso vi era rappresentato nel momento delle sfide che li aveva consacrati definitivamente dei.
Non distoglievo gli occhi dalla mia tela, orgogliosa, felice. Non mi importava più della sfida, ero immersa nella realizzazione di tutti i miei sforzi: anni e anni di duro lavoro per arrivare alla perfezione. Si, perché era perfetto e nessuno, nemmeno la dea, poteva negarlo.
Era perfetto in ogni dettaglio e lo guardavo e lo rimiravo, incapace di staccare gli occhi, cercando nei minimi dettagli i possibili errori.
Arrivò da dietro, inavvertitamente: fece a brandelli la tela, distrusse il mio capolavoro e poi mi picchiò. Con ferocia, odio, disprezzo. Avevo vinto io e questo non lo tollerava!
La mia opera distrutta! Una vita per la perfezione assoluta, una vita intera di sacrifici e di fatiche, una vita di passione, e in un attimo distrutta!
Cercai una via di fuga al mio dolore: mi impiccai.
Ma la dea Atena non volle lasciarmi andare: la pietà non è parte di un dio. Mi sorresse e mi trasformò così, come mi vedete: un ragno schifoso, condannato a emettere una trama di fili sottilissimi a creare infiniti capolavori che un soffio di vento porta via in un attimo.