Gianluca Biggio. “IL GABBIO. STORIE DI UMANITÀ RECLUSA”
RECENSIONE:
GIANLUCA BIGGIO, IL GABBIO. STORIE DI UMANITÀ RECLUSA. Mimesis, 2024, Milano-Udine. 2024
Pagg. 144, € 14
Il Gabbio, Storie di umanità reclusa è un libro che fa entrare in un contesto particolare e in storie di forte disagio esistenziale, nella marginalità di vite e di situazioni del carcere romano di Regina Coeli.
Gianluca Biggio vi ha prestato servizio come psicologo e psicoterapeuta e, al concludersi di questa lunga esperienza, ricompone una raccolta di ricordi, riflessioni, immagini e impressioni emotive. La scrittura di questo testo accompagna il lettore nelle atmosfere di un luogo estremo e mitico, storicamente legato alla città di Roma e all’immaginario collettivo con mille fili, ma ormai divenuto una magmatica comunità di lingue, colori e drammi. Le sue celle sono ormai occupate per la maggior parte da immigrati tossicodipendenti, gli “stranieri diseredati”, i più poveri di tutti, finiti qui nell’oasi di pena che può talvolta, nelle circostanze più miserabili, dare ristoro a vite che non hanno nulla.
Nel gergo romanesco il Gabbio è il carcere ed è anche un luogo mitico e simbolico della reclusione che restringe la libertà individuale. Essendo il Gabbio una porta girevole, la cesura fra un di qua e un di là si situa nella linea di demarcazione di due mondi, che il detenuto varca pur appartenendo ad entrambi. Nel di qua delle celle che saranno la sua casa per un certo tempo, e nell’al di là all’esterno dove vivono i suoi familiari, si dipanano i suoi legami, i desideri, i sogni e le illusioni di un futuro di libertà a cui volgere il suo pensiero.
Una umanità così segnata e ferita, ma tuttavia resistente e dura, a volte soccombente, offre allo sguardo attento di Biggio una lunga e articolata riflessione, che nel testo diventano finestre su questo mondo complesso e dolente. La vita nel carcere, con i suoi ritmi, le regole istituzionali, le regole di vita autoimposte dai codici di relazione e di gerarchia tra gli stessi “ristretti”, è una composita narrazione che dal collettivo rimanda al singolo e dal singolo alla collettività, un enorme polmone che respira, si agita, si intrattiene, soffre, reagisce con orgogliosa forza renitente e maschere di durezza “il carcere mi rimbalza”. Eppure, scrive Biggio, anche negli occhi dei più duri balenano a volte guizzi di stupore nervoso come quelli di una tigre caduta in trappola. “Riuscirò ancora una volta a forzare queste sbarre?”
Il lavoro prezioso di uno psicologo in carcere si chiarisce via via nelle pagine che vedono il valore dell’ascolto, della misura, della distanza rispettosa. Il libro offre al lettore alcuni temi di grande interesse, invitandolo a partecipare con immedesimazione e una profonda comprensione: lo stato di dissociazione del carcere, la vita in cella, il suo codice gerarchico, la conta giornaliera, il tempo immobile scandito in ritmi ripetitivi inflessibili e circolari, una sorta di inconscio carcerario che si addensa di un immaginario fatto di segni, di fremiti, di echi e umori, di odori e sussulti, di voci che si irradiano all’unisono come onde magnetiche.
La sensazione di uno strano vento che cala all’imbrunire è fatto di suoni e odori, di voci e melodie, di sciabordii di un mare la cui marea lambisce i cuori tristi, delusi, attoniti. Il mondo sensoriale del carcere, gli effluvi delle cucine delle celle dove si preparano ricette familiari richiamano le radici identitarie di ciascuno.
Si rimane colpiti dall’uso quasi clandestino delle parole poetiche, nel vagheggiare sogni e nell’evocare dolori e incubi del carcerato, nel suo percorso dentro il vortice delle privazioni più estreme, la libertà, la lontananza dai familiari, la perdita della speranza, il buio degli incubi del trauma. Su questa umanità reclusa scorre talvolta la dolcezza di immagini che possono sciogliere la durezza della vita e consentire momenti di rilascio, di straniamento, di pace.
Colpisce la osservazione che il carcere possa essere, molto a suo modo, un luogo di pensiero. Dove si farebbe di tutto per non pensare ma non se ne può fare a meno, ciascuno porta in effetti una forma di pensiero, perché la solitudine, il tempo congelato e l’inquietudine malinconica lo rendono necessario. Sono riflessioni sul chi siamo, sul senso della propria vita, sul torpore ottuso dei giorni sempre uguali, sul futuro atteso in illusori viaggi mentali, o preparazione di cambiamenti radicali per uscire dalla costrizione del destino di marginalità.
I diversi capitoli del libro sono dedicati ad aspetti talvolta sotterranei, nascosti, indicibili. Come il tema del dolore, una traccia indelebile che scorre attraverso le migliaia di persone che hanno trovato nel carcere un luogo della “pena”, dove incontrare la propria sofferenza, senza poterla più eludere con la negazione, gli agiti, le droghe, le condotte criminali. E lo psicologo è il testimone e il depositario infine di una verità profonda di disagio e rabbia, senza più la baldanza di chi si fotte della pena e ostenta una sicurezza di lotta e di superiorità, fino ad accettare la verità del dolore.
Se un aspetto comune a tutti è quello di non essere stati guardati, trovati, considerati, manca in loro la possibilità di trovare un senso di dignità che apra alla speranza di svolte costruttive e non ripetitive del degrado psichico a cui sembrano inesorabilmente destinati. Ed è vero che queste persone nuotano perennemente in un mare fatto di isolamento, vuoto, disattenzione e disconoscimento. “È come se lo stare al mondo sia un’impresa troppo grande e terribile per non desiderare altro che di fallire”.
La lettura di questo libro ci porta in una dimensione esistenziale intima e problematica, attraverso la testimonianza di chi porta la sua competenza e sensibilità umana e psicologica per costituirsi come l’altro che riconosce, accoglie, riflette e porge elementi di speranza.
L’immagine di apertura è un’opera di William Kentridge: (Drawing for Zeno Writing – Panther in cage, 2002), ed è ispirata dai versi Rilke, La pantera:
… / L’incedere morbido dei passi flessuosi e forti, nel girare in cerchi sempre più piccoli, è come la danza di una forza intorno a un centro in cui si erge un’enorme volontà abbattuta./ …