Laura Fontana. “Fotografare la Shoah. Comprendere le immagini della distruzione degli ebrei”
Laura Fontana, Fotografare la Shoah. Comprendere le immagini della distruzione degli ebrei. Einaudi, Torino 2025
Recensione di Rosita Lappi
Laura Fontana, storica della Shoah, ha raccolto in questo libro un complesso lavoro di ricerca di archivio e di analisi, un racconto polifonico attraverso le fotografie della Shoah, volto al discernimento delle circostanze in cui le fotografie furono realizzate, imprescindibile per la comprensione delle violenze perpetrate sugli ebrei.
Fotografare la Shoah. Comprendere le immagini della distruzione degli ebrei affronta un fenomeno difficilmente afferrabile nelle proporzioni immani che la violenza nazista operò su un popolo e sulle singole vite. La Shoah è stato uno degli eventi più documentati fotograficamente della storia del Novecento, fotografie che restituiscono prospettive sulla storia degli ebrei sotto il Terzo Reich e sulla traiettoria di violenza che li ha portati allo sterminio.
Le fonti sono innumerevoli e provengono da archivi pubblici e raccolte private. Il libro tiene insieme e analizza, con la narrazione storica dello sterminio, visioni problematiche, assurde, dissonanti, violente, collocando ogni fotografia in contesti che le chiariscono, le fanno parlare, ne allargano la visione. Scatti che, al di là di quelli più visti e documentati, sono rimasti a lungo inaccessibili, muti, enigmatici, inascoltati. Ne 2021 un progetto internazionale intitolato #Last Seen (visti per l’ultima volta) ha permesso di raccogliere, studiare e digitalizzare le fotografie delle deportazioni degli ebrei civili (ma anche dei sinti, dei rom e dei disabili), verso i numerosi campi di concentramento e i centri di assassinio. Arresti, rastrellamenti, confisca dei beni, trasferimenti forzati estenuanti, brutalità, esecuzioni, avvenivano nel corpo stesso delle città e dei paesi, sotto gli occhi della popolazione, in una dimensione pubblica del crimine che non permette più alcun alibi. Tutti sapevano e anzi ne approfittavano aggiudicandosi alle aste i beni e le proprietà. Questo enorme lavoro di ricerca ha permesso di creare nel marzo del 2023 un album fotografico digitale, consultabile al sito: https://atlas.lastseen.org/en.
Nel libro vengono indagati i retroscena che riguardavano il fatto stesso di fotografare, da parte dei nazisti, con la loro brama smisurata di documentare la distruzione dell’ebraismo e la loro idea di superiorità razziale. Gli ebrei sono fotografati mentre vengono offesi, picchiati, costretti a guardare verso l’obiettivo mentre ricevono il colpo di grazia. Il repertorio di questi atti criminali è impressionante, come inguardabili sono, per la paura di identificarsi con loro, le facce ridenti e sprezzanti dei nazisti che assistono alla scena. È interessante notare come, nonostante la loro brama di documentare, i nazisti si siano trovati a dover affrontare le conseguenze delle loro azioni, cercando di distruggere le prove dei loro crimini quando la guerra volgeva a loro sfavore. Questo contrasto tra la volontà di immortalare la loro brutalità e il tentativo di cancellarne le tracce offre uno spaccato inquietante della psicologia di un regime che ha cercato di giustificare l’ingiustificabile. La crudeltà che traspare da queste fotografie è un potente monito sulla capacità umana di infliggere sofferenza e sulla necessità di ricordare e riflettere su questi eventi per evitare che simili atrocità si ripetano in futuro.
Se le fotografie dei nazisti sono il nucleo più importante di foto della Shoah, l’altro nucleo conosciuto sono le fotografie della liberazione ad opera degli alleati, con i cumuli di cadaveri e i corpi scheletrici dei sopravvissuti, capaci di dare visione dell’abominio perpetrato dai nazisti tramite la metodica organizzazione di genocidio di un popolo
Recentemente sono emerse da collezioni private le foto prese da privati cittadini, dagli ebrei stessi o da cittadini curiosi, sulla vita familiare e di comunità nei ghetti, mentre la propaganda antisemita poneva drammaticamente in forse la vita e il destino, e si trattava di cercare di mettersi in salvo, mentre cominciavano i rastrellamenti degli ebrei e la loro deportazione verso i campi di sterminio. Molte fotografie erano colte in modo clandestino da fotografi amatoriali del posto non autorizzati, consapevoli di documentare fatti di enorme gravità.
Le fotografie così raccolte impongono un lavoro di decifrazione, non più come supporto iconografico a mostre o divulgazione, ma in se stesse come strumento cognitivo, con le ombre, le incertezze, gli errori fotografici (Clément Chéroux, L’errore fotografico, Einaudi, 2009), materiale da interrogare, da decifrare, da collocare in contesti che appaiono muti e ripetitivi, come le lunghe file di deportati, ammassati lungo i treni che li avrebbero consegnati ai loro crudeli aguzzini. Lo sguardo su questi documenti visivi si fa attonito, sgomento nell’intravvedere le emozioni strazianti degli addii sui volti di donne, bambini, famiglie smarrite nella realtà del loro sradicamento, mentre qualcosa di drammatico sta accadendo alla luce del sole, sotto gli occhi di vicini e cittadini indifferenti o partecipi del genocidio.
Offrendo una narrazione basata sulla pluralità di sguardi di questa rassegna, l’Autrice riprende le proposte di Clément Chéroux sulla necessità di ripercorrere la genesi di questi scatti e la riflessione di Georges Didi-Huberman sulle evocazioni del testo visivo (Immagini malgrado tutto, Cortina ed. 2005), estendendo lo sguardo a nuovi scenari suscitati dalle fotografie prese in esame.
Quando una fotografia storica viene utilizzata solo come illustrazione del racconto, in realtà la si tradisce, la si congela in una immagine muta, incapace di trasmettere tutto il suo valore di documento. Osservandola nel contesto dell’evento che presenta e accettando la sfida di guardare in esse l’orrore, si cerca di cogliere elementi che la chiariscano e le diano significato, a tanta distanza di tempo. Nel ricomporre il mosaico di vite straziate, le fotografie restituiscono pezzi di un ambiente che va interrogato e per quanto possibile ricostruito, dando valore anche alle assenze e ai vuoti che l’immagine fa intravvedere, senza una loro storia. Indagare dunque i luoghi, le circostanze, le persone con le loro precise identità e storie, mentre venivano disperse e portate verso l’abisso, restituisce preziosi lacerti di memoria personale.
È inoltre fondamentale considerare il legame tra il soggetto e il fotografo, che guarda una scena per lui evidentemente piena di significato, che lo turba, che lo spinge a trattenere ciò che vede in un documento necessario alla memoria. Una fotografia può anche restituirci un ambiente sonoro ed emotivo, come lo sono le foto che Laura Fontana prende in esame, le cui densità sensoriali vanno oltre la capacità di sopportazione umana (il fetore pestilenziale di Birkenau, i rumori e il fumo acre dei forni crematori, l’abbaiare dei cani e le grida degli aguzzini, le implorazioni e i pianti delle vittime). Viene in mente un film di recente uscita, La zona di interesse, che ci restituisce in una surreale ricostruzione sonora la realtà indicibile al di là del muro del campo di sterminio, mentre chi lo governava viveva una tranquilla vita piena di affetti familiari.
La rappresentazione visiva può affrontare e rivelare l’indicibile, portando alla luce le complessità e le contraddizioni di eventi storici così dolorosi, aiutandoci a comprendere meglio il passato e a mantenere viva la memoria di ciò che è accaduto.
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Rosita Lappi è psicoterapeuta psicoanalitica, membro Ordinario con funzioni di training della Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica (SIPP). È Direttore responsabile di ARACNE rivista d’arte online. rosita.lappi@icloud.com