Fragilità e danno esistenziale tra giurisdizione e letteratura. Una conversazione con Paolo Cendon

 In Contributi, Presentazioni e Recensioni


 

 

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Paolo Cendon è una eminente figura di giurista, saggista e scrittore. L’uscita del suo ultimo libro Vivere la propria vita. 80 racconti sulla fragilità (Santelli Editore, 2025), dedicato alle molteplici sfumature della vulnerabilità, ci dà l’occasione di conoscere il suo lavoro su alcuni dei temi giuridici più sensibili degli ultimi decenni, quelli legati alla tutela della salute mentale, all’amministratore di sostegno e alla definizione giuridica del danno esistenziale. L’attenzione per la fragilità umana è il fulcro del suo operare come docente, giurista “della vita”, come è stato acutamente definito, inventore e riformatore, promotore di realtà associative, romanziere e divulgatore. Coerentemente all’impegno di giurista, nasce in Paolo Cendon la voce di scrittore, per l’esigenza di trovare uno stile autenticamente umano nel narrare le tante storie con cui è venuto a contatto, quelle vicende che hanno dato spessore alla sua ricerca e ai suoi studi giuridici. Narrare è diventato, anche nel ruolo di decente universitario, una espressione della sua profonda sensibilità al trauma, alla fragilità, ai danni derivanti dalla violenza e dalle circostanze negative. I discorsi teorici si intrecciano con quelli pratici, con le vicissitudini e le tante sfumature del danno e del bisogno.
Leggendo i suoi scritti, sia in ambito giuridico che letterario, la terminologia del narrare si fa vera ed espressiva, empaticamente partecipante alle vicende tematiche. Lo stile avvicina i lettori di varie discipline, con cui la legge deve dialogare, articolarsi, collaborare al fine di portare forme di tutela e di riparazione nelle esistenze degradate dal danno e sconvolte dai suoi perduranti effetti sullo sviluppo della personalità e sulle condizioni concrete di vita. C’è un evidente e salutare rispetto per la parola giusta, precisa come la parola poetica, ma che contiene anche l’ambiguità delle situazioni di cui trattare, per diradare la nebbia delle mistificazioni, illuminando verità dolorose e scomode, aprendo una dimensione anche immaginativa, facendo vedere e capire. Nelle sue storie si sente la voce autentica dell’altro, che spesso non ha potuto usare per difendersi e affermare la sua verità.
E si avverte una pacatezza di fondo, empatia ed equilibrio che consentono di tenere insieme pathos e sofferenza, riflessione e ordine mentale sui quesiti esistenziali e giuridici. I provvedimenti giuridici si interfacciano con tutti gli scenari di degrado civile e sociale, operando laddove vi siano lesioni della sfera privata e della dignità della persona. Negli anni della sua attività giuridica, la vita reale, con le sue violente derive e necessità di cura e di tutela, entra nella scena giudiziaria e si misura con traumi ed abusi, sofferenze, bisogni, solitudini, disabilità fisiche e mentali, naufragi personali, definibili nel concetto di “danno esistenziale”. La riparazione del trauma e dell’abuso fisico e psicologico ha bisogno di un concreto riconoscimento in sede giudiziale, con i provvedimenti ed ausili di tutela della vita così sconvolta e annichilita dall’azione violenta e perversa. La realtà di una vittima di abuso è complicata e dolorosa, piena di disagio confuso e innominabile, di rabbia, vergogna, sensi di colpa e di scissioni emotive patologiche. La rimozione sociale del trauma ne consente la perdurante ricorsiva riproposizione. L’attenzione che si deve per la verità e per la sofferenza della vittima deve tenere conto anche dell’oltraggio che avrà conseguenze nefaste nel tempo, nelle sue scelte di vita, sentimentali, relazionali, nel dolore inflitto ai suoi familiari, portando al pieno riconoscimento della verità e al ripristino della fiducia nella vita e nel futuro.

Abbiamo chiesto al Professor Cendon di parlarci del suo percorso e di alcune questioni che sono per noi tutti, e per coloro che operano nel campo del disagio in particolare, di grande interesse.

 

Nel suo percorso come giurista e riformatore, quando ha incontrato la tematica della tutela alla persona fragile, in quali circostanze o grazie a quali sensibilità personali si è avviato il suo impegno?

Avevo già avuto modo di avvicinare, pur da lontano, il mondo del disagio e della psichiatria, quando da bambino abitavo a Venezia, essendo mio padre Responsabile dell’Economato alla Provincia: suo compito era quello di approvvigionare, tra l’altro, i manicomi di san Servolo e san Clemente. Lo accompagnavo talora in visita alle due isole, e agli incontri con le suore che ci abitavano, col vaporetto o col motoscafo. Molti anni dopo, il contatto diritto/psichiatria si rinnoverà per me – sotto altra veste – quando a Trieste, verso al fine degli anni ’70, conoscerò e frequenterò l’équipe che contornava Franco Basaglia; e via via comincerò a collaborare con loro. L’esordio letterario quale studioso, personalmente, è stato quando ho scelto di cimentarmi, in un saggio comparatistico, rispetto ai nodi della responsabilità civile collegata al danno psichico. Si trattava in particolare di domandarsi, sulla scorta di una figura di “Tort” già esistente da tempo negli ambienti di common law, se, ed in quali casi, fosse possibile immaginare che qualcuno rispondesse per i disturbi psichici inflitti, dolosamente o colposamente, a qualcun altro (“Infliction of mental distress”). Scrissi così nei primi anni ’80 un libro, pubblicato poi al Mulino, “Il prezzo della follia”, che fu per me, come giurista, la prima tappa di avvicinamento alla materia dell’infermità di mente; e in generale l’occasione per accostarmi all’immensa biblioteca della psichiatria, da me sino ad allora poco conosciuta.  Poi però, sospinto da amici e allievi, accettai laboratorialmente il fatto che il problema fondamentale, per il diritto privato, era quello di immaginare, nel primo libro del codice, un inedito strumento generale di supporto, che sostituisse i vecchi arnesi ottocenteschi dell’interdizione e dell’inabilitazione. Oppressivi e ostracizzanti.
Ci fu poco dopo un grosso convegno multidisciplinare, organizzato a Trieste, nel 1986, al termine del quale mi misurai – con notevole fatica ripeto – nell’impresa di mettere a punto i lineamenti del nuovo istituto di protezione delle persone fragili.
La chiave di volta fu puntare su una soluzione che si traducesse in un vero e proprio “abito su misura”: ovverossia muovere dall’idea di un presidio ritagliato, volta per volta, sulle necessità di quell’essere umano in difficoltà. Diritto “dal basso”, insomma, invece che diritto “dall’alto”: cioè, via via, un grosso lavoro da compiersi – nel territorio – per i giudici, per i servizi, per gli psichiatri, per gli operatori, per gli avvocati. Il progetto legislativo in questione – ampliato e migliorato qualitativamente da Deputati e Senatori – verrà approvato a fine 2003, dal Parlamento italiano; e nel 2004 entrerà in vigore, sotto il nome appunto di ‘’Amministrazione di sostegno’’ (art. 404 c.c. e ss.). Da allora, devo dire, l’importanza del tema mi ha praticamente travolto, e indotto via via a diventare una specie di esploratore/ricognitore quotidiano, lungo i meandri di questa complessa materia.

Tutele di protezione della persona bisognosa sono oggi date come scontate, la figura di amministrazione di sostegno a quale esigenza andava incontro?

Come ho detto, la chiave di volta, operativamente, è stata quella di abbandonare lo schema tipico dell’interdizione e inabilitazione; moduli entrambi che postulano a monte –
a livello codicistico – un format di protezione valevole per tutti quanti i destinatari, rigido, cristallizzato, praticamente immodificabile nei dettagli, e che diventa poi di fatto omologante per l’insieme dei soggetti cui è applicato. Anche oggi, visto che nel 2004 non siamo riusciti ad abrogare i due vetusti istituti, in Italia, le cose stanno in effetti così. Tutti gli interdetti (attualmente più di 100.000)   sono uguali fra loro dal punto di vista statutario, istituzionale, e così pure tutti gli inabilitati. Fin dall’inizio, quello schema di lavoro mi apparve l’esatto contrario di ciò che occorreva fare,  sul piano della civiltà, per l’Italia: bisognava  secondo me  partire  non già dall’alto – magari da qualche etichetta, definizione, slogan –  bensì “dal basso”, ossia dal riscontro  minuzioso circa le peculiarità quotidiane, le sofferenze identitarie, le effettive aspirazioni di quel  soggetto da proteggere: e trasfondere poi il risultato di quei riscontri, puramente e semplicemente, nel decreto istitutivo dell’amministrazione di sostegno. Insomma una linea di politica del diritto, per cui tutti i beneficiari di AdS sono funzionalmente diversi fra loro, anche dal punto di vista applicativo: nessuno è, corpo e anima, identico agli altri; e il diritto ‘’in action’’ tiene conto, doverosamente, di quelle peculiarità più o meno rilevanti, che contraddistinguono ogni essere umano. Seconda chiave di volta fu, poi, quella dell’abbandono – sul piano del metodo – per lo schema dell’incapacitazione “automatica”. Non è detto, in effetti, che chi è in difficoltà o sta male, mentalmente, intellettivamente, sia destinato a combinare sempre e soltanto dei guai, contabili, negoziali, gestionali: potrà magari essere a disagio nel compiere, da solo, atti che sarebbero comunque alla sua portata e che gli complicherebbero la vita fattualmente, a livello esecutivo/ applicativo.
Conclusione: non è detto che il giudice, quando emette il decreto istitutivo di AdS, debba per forza, più o meno consistentemente, “incapacitare” l’interessato, cioè togliergli qualche diritto o qualche potere. Il problema dell’incapacitazione esiste sulla carta, naturalmente, perché ci sono in effetti al mondo persone che non sanno occuparsi adeguatamente delle loro cose; mettiamo, del conto in banca o del libretto postale o dei beni di cui sono proprietari o della gestione delle bollette, fatture, cedole, esdebitazioni, affittanze, rate del mutuo, contribuzioni, tasse, e via di questo passo.
Ma, se si tratta di introdurre qualche limite alla sovranità amministrativa/gestionale dell’interessato, lo si farà – ecco il punto – sulla scorta di un ben preciso riscontro e inventario di quei limiti psicofisici, svolto in maniera concreta, ex post, non già a monte, aprioristicamente. L’esempio più semplice può essere quello di una persona, con disabilità, la quale si trovi stabilmente in carrozzina; di un essere che può quindi essere, talvolta, in serie difficoltà nel muoversi fisicamente in città, con la burocrazia, negli uffici, e nel fare alcune cose della vita pratica. Per la persona in questione, la quale è probabile conservi intatta la sua lucidità mentale, potrà esserci magari l’opportunità – qua e là, occasionalmente – di vedersi affiancare su alcuni versanti operativi da un AdS. Non c’è però, in via di principio, la necessità che le venga tolto, con ciò stesso, qualche brandello significativo e nemmeno magari un pizzico di poteri, libertà, lieviti sovrani, diritti. Dare senza togliere, insomma, supportare senza umiliare, anche sul terreno della salute e della famiglia.

Il concetto di danno esistenziale rappresenta una grande conquista giuridica. Quali motivazioni e quali difficoltà ha trovato nell’iter per la istituzione del “danno esistenziale”?

Un bambino piccolo, il quale perda la sua mamma in un incidente stradale, avrà tanti oscuri dolori e molte ombre sotterranee di cui soffrire, più o meno inconsapevolmente; ma quel che è certo è che la sua vita esterna, ora per ora, punto per punto, viene sconvolta dal fatto, appunto, di non avere più la madre. Giochi, addio coccole, pulizia, latte, fiabe, vacanze, aria aperta, ninna nanne, feste, respiro, fisicità. Si potrebbero fare mille esempi del genere: anche se, fra i due universi del soffrire e del fare (fare male, dover fare, non poter più fare), possono esistere contiguità, corrispondenze, si tratta comunque di due sfere diverse e indipendenti dell’essere umano. L’idea del danno esistenziale nasce intorno al 1990, a Trieste, come consapevolezza della necessità di valorizzare il momento risarcitorio del fare, accanto al filone dei dolori; in ordine cioè a ripercussioni mondane, relazionali, che finisca per risentire – come impatto e come pretesa – una persona in tanti casi di illecito. Ecco così, accanto alle voci del male interiore, il parallelo settore/filone delle ‘’attività realizzatrici’’, minacciate o pregiudicate a seguito di quell’evento antigiuridico. Non poter più camminare bene, non poter più fare all’amore, non poter più ballare, essere in difficoltà nel parlare, nel giocare, nello scrivere, nel partecipare ad eventi sociali, culturali, artistici, nel portare avanti una carriera politica, nel fare dei viaggi e così via.
Il danno esistenziale sostanzialmente scompone/ricompone la vita umana in una serie di sub-raggi esplicativi e per ciascuno di essi, volta a volta, si interroga sugli scompensi di vitalità, di fragranza per la vittima, anche o soprattutto non biologica: che cosa non puoi più realizzare, di quello che facevi allora, che cosa sei costretto a compiere che non avresti fatto prima. Ecco queste due raggiere del fare perduto e del fare obbligato sono le componenti di base del danno esistenziale. Vivere significa in effetti agire, collegarsi agli altri, oziare se si vuole come Oblomov, operare, non andare in prigione, fare del bene, non essere sequestrati o stalkizzati o diffamati, esprimersi nelle cose che facciamo o non facciamo: tutto questo andrà evidenziato, provato, raccontato al giudice e alla fine risarcito puntualmente.

Quali differenze si possono cogliere tra danno esistenziale, concepito giuridicamente, e il danno del vivere, l’esposizione al dolore delle prove di vita. Il dolore morale della vittima può essere inteso come un elemento ineliminabile della vita, e come tale non riparabile?

Come ho detto, esiste una certa corrispondenza fra il mondo del sentire e il mondo del fare: nel senso che, se dopo il fatto illecito non posso più fare certe cose o sono costretto a farne altre di sgradevoli, anche la mia scala interna di ripercussioni psicologiche e sentimentali, probabilmente, si alzerà e si abbasserà di conseguenza. Ma non è scontato sia sempre così, e si tratta comunque di universi distinti ontologicamente. Per decenni e decenni, si è continuato a risarcire come danno non patrimoniale (soltanto) il “danno morale”, cioè il mero universo delle sofferenze, dei patimenti, dei dolori, delle angosce, insomma il mondo interno, liquido dello spirito; luogo certamente importante, diciamo subito, ma circoscritto al lato puramente “sentimentale, zuccheroso, solitario, freudiano, invisibile” dell’essere umano. Dalla nascita del danno biologico (1974) e poi dal danno esistenziale (che incorpora in sé anche il biologico, oltre che l’esistenziale non biologico), che oggi tanti preferiscono chiamare danno “dinamico-relazionale”, in Italia si risarcisce da trent’anni anche una seconda tipologia ripercussionale, legata alle componenti estrinseche, cinematografiche, fattuali dell’agenda perduta.
L’esempio più importante resta quello del lutto: perdere un coniuge, i genitori o un figlio o un fratello sconvolgerà la parte interna ed emotiva della nostra vita, ma spesso procurerà forti incidenze anche sul piano “esterno” della relazionalità, della creatività spicciola.
E lo stesso può dirsi per campi come quelli dello sport, del turismo, del sesso, dei viaggi, del coro musicale, dell’attività artistica, sindacale, associativa, accademica e così via. Se per colpa tua non posso più fare questa e quella cosa, areddituale, viva e dolce in me, come invece l’avrei fatta laddove non ti avessi incontrato, di questa menomazione e spoliazione tu mi dovrai risarcire. Cosa sfugge al diritto? Ciò che sia troppo strano, impalpabile, scollegato causalmente, futile, non dimostrabile, segreto, colpa di altri, vago, evanescente, volatile, non realmente dannoso.

Quale definizione e quali esempi può dare, in base alla sua esperienza, al concetto di ‘fragilità’ umana, a cui ha dedicato tutta la sua vita di studio e di riforme?

Credo si possano dare mille definizioni della fragilità, che è diventata un termine molto in voga oggi. Quella che il diritto civile può preferire, verosimilmente, è una formula che scandisca il contrasto fra ciò che una persona fa/sente “attualmente”, e ciò che la stessa farebbe/sentirebbe qualora mancassero “determinati ostacoli” (per usare il termine dell’articolo 3 della Costituzione) che affettano e oscurano al presente la sua agenda. Forse possiamo partire dalla nozione di “combinazione esistenziale”, come sintesi di tutto ciò che ognuno mette a 18 o a 20 anni nel suo progetto di vita, nella sua mongolfiera personale, nelle sue speranze più o meno oniriche di inveramento: ciò che blocca rivoli  e faglie di progettualità di quell’essere è  il lievito sprecato,  allora, l’infertilità, il cavallo di Frisia, che talvolta è compito della Repubblica rimuovere o indennizzare, se  non dovere  del privato tortfeasor, incomodo, malfattore, disturbatore.

Oggi i mutamenti sempre più accelerati e incalzanti erodono il tempo della riflessione e del pensiero. In un mondo che si è fatto sempre più indifferente, egotico, sprezzante e violento, si può temere di perdere le tutele così faticosamente istituite nei confronti delle persone più sfortunate?

Direi che se oggi, nel 2025, ci guardiamo intorno, possiamo dire che peggio di così non potrebbe andare. Per quanto riguarda specificamente il diritto privato, il punto è che la macchina da avviare onde sorreggere una persona fragile, la sua sfera personale, il suo sogno di felicità, realizzazione, effervescenza, fragranza, biologica, relazionare, familiare, lavorativa, culturale, creativa è, di solito, una combinazione  organizzativa complessa: fatta di un buon giudice tutelare, di un buon amministratore di sostegno, di esperti, di medici e servizi sociali, di una presa in carico effettiva da parte della pubblica amministrazione, di una rete di puntelli psi che funzioni davvero. Un discorso pratico, come si vede, affidato all’energia e all’efficienza burocratica, antropologica, farmacologica, ambientale, di tante stanze dell’accudimento ufficiale. Basterà  che qualcosa si blocchi, in questa ardua sequenza di attenzioni e soccorsi, e la persona fragile starà male o farà del male a se stessa o agli altri (droga, alcol, ludodipendenza, gravi patologie, anoressie): sì, c’è spesso in gioco nel diritto anche la vita degli altri, familiari, compagni, vicini di casa, etc., di cui si parla troppo poco, oggigiorno, per colpa di timori, ipocrisie  e pudori malposti. Dedicarsi a far si che ogni anello della catena solidale funzioni, purtroppo, conduce spesso l’interprete a scacchi di giornata, frustrazioni, a insufficienze e delusioni di vario genere.

 

***

Le parole di Paolo Cendon non potrebbero essere più chiare ed esaustive nel mostrarci il tema di questa nostra conversazione. Il concetto di ‘riparazione del danno’ è un vasto campo di indagine e di applicazione, si pensi ai traumatismi dovuti alle guerre, alle catastrofi naturali, alle migrazioni di profughi, alle violenze perpetrate dalle dittature e dalle politiche economiche inique, alla povertà estrema e alle violenze correlate, ai comportamenti devianti dei giovani, all’abbandono scolastico e all’arretramento culturale.
Come riconosce Paolo Cendon, il giudice deve emettere sentenze che vanno tanto a fondo nella vita delle persone. Di fronte al problema pulsante della sentenza, deve sapere partecipare umanamente alla enormità del danno di cui deve occuparsi, con sensibilità, comprensione, empatia, per consentire una uscita dal male. Per questo motivo, lavorare quotidianamente con il disagio e la sofferenza può essere molto impegnativo, doloroso e stressante. Nel compito di legiferare e giudicare, come anche in altre professioni socio-sanitarie, può succedere di perdere qualcosa di significativo per la nostra stessa vita in cui abbiamo creduto e che abbiamo smarrito, la bellezza, la passione, la relazionalità, l’impegno, e la freschezza della gioventù, la ‘fragranza’ della vita, la vivacità rivoluzionaria.
Paolo Cendon ribadisce la necessità per il giudice, l’avvocato, per le persone a contatto e fortemente implicate in queste vicende, di usare una postura affettiva partecipe, dolce, in ascolto ben oltre le parole dette che possono disorientare e confondere, quando la verità viene da chi ha operato l’abuso, mistificata, manipolata e corrotta. Una disposizione personale aperta alla vita, al suo riscatto, alle istanze del desiderio, del benessere, della riparazione creativa laddove la vita è stata così mortificata e annichilita. Anche coltivare la cultura porta freschezza e vitalità. L’arte, la musica, le buone letture, il contatto con la bellezza in tutte le sue forme consentono di tenere insieme un mondo di bontà e benessere da cui attingere per restituire sentenze giuste e generative di rinascita, di speranza, di apertura e fiducia negli altri e nella vita.

 

Paolo Cendon è un giurista, scrittore e saggista. Negli anni Settanta e Ottanta ha collaborato con il team di Franco Basaglia per la riforma della psichiatria, dei suoi istituti, del codice civile. È coordinatore scientifico del Tavolo nazionale sui diritti delle persone fragili, istituito il 9 gennaio 2020, presso il Ministero della giustizia ed è coordinatore dell’Associazione Nazionale Diritti in Movimento. Tra le sue opere: Anime folli: disagio psichico, danno, riparazione, Marsilio, 1997; I malati terminali e i loro diritti, Giuffré, 2003; L’orco in canonica, Marsilio, 2016; I diritti dei più fragili, Rizzoli, 2018. Nel 2020 Santelli pubblica “Il mondo di Paolo Cendon”, che riassume tutta la sua influenza.

Rosita Lappi è psicoterapeuta psicoanalitica, membro Ordinario con funzioni di training della Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica (SIPP).  È Direttore responsabile di ARACNE rivista d’arte.

 

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