Butor, il tempo e lo sguardo
Non so davvero se con Butor, lettore bulimico ed imprevedibile, si possa stabilire un qualche legame, un tendine affettivo, una liana improbabile, tra lui, improprio scrittore del Nouveau Roman, e quel magnifico romanziere del non-romanzo, del romanzo post-kafkiano, di quella epocale ‘Morte di Virgilio’, e dell’Eneide in rotoli, che dev’essere bruciata al concludersi dell’agonia dell’artista, che crede in una perfezione assoluta e catafratta, che non prevede il lettore (e ci pensa giustamente il suo autore a deciderne la sorte, non delegando a un qualunque titubante Max Brod) ed in cui le larve dei molti personaggi romanzeschi vagano, nel blanchottiano “spazio letterario”, quali fantasmi devitalizzati, disossati: come Sonnambuli. Hermann Broch, appunto, l’incolpevole. Ma la frase (un’osservazione che anche l’ossesso del volto, inestinguibile, Alberto Giacometti, avrebbe potuto sottoscrivere) è così fascinosa, che non posso che trascriverla, in quest’inizio d’intervento fallimentare e preliminare (una specie di petting contrastato ed ostacolato, con l’argomento sguardo-Butor, che dovrà ancora trovare, altrove, lo spazio della sua rivalsa e dell’approfondimento). “Joachim” personaggio primo dei Sonnambuli (in “Pasenow ou le romantisme”) «avvertì su di sé lo sguardo di Elisabeth e dovette stupirsi ancora una volta che da due stelle trasparenti e bombate inserite da una parte e dall’altra del naso potesse emanarsi qualcosa come uno sguardo. Che cosa è infatti uno sguardo?»
Immagine: fotografia di Butor